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Focus – Moving Waves (1971)

Creato il 09 marzo 2011 da The Book Of Saturday

Artista/Gruppo: Focus

Titolo: Moving Waves

Anno: 1971

Etichetta: Imperial/EMI-Bovema (Eu) Sire Records (Usa) I.R.S. Records (Usa, 1991)

Focus – Moving Waves (1971)

Ho atteso molto per scrivere questa recensione, ho aspettato, ho ascoltato il disco più e più volte, due, tre consecutive, con cuffie, senza, in macchina. Mi ci sono anche addormentato (con una certa difficoltà nel prender sonno). Ora, dopo giorni di studio, posso dire che è giunto il momento di raccontarvelo.

Moving Waves (o anche Focus II) è il secondo album del gruppo progressive olandese Focus, è un disco grezzo, non eccezionalmente ricercato negli effetti, un organo Hammond, un mellotron, chitarra Gibson Les Paul (a volte con tre pick up), e poco altro. Ma il prodotto finale suona bene. Si tratta del disco che, dopo la sua uscita nel 1971, fece fare il balzo nelle classifiche a questa band, in Olanda, negli States, e soprattutto in Gran Bretagna, dove all’epoca il prog teneva già da tempo nomi altisonanti come King Crimson, Genesis, Yes.

Merito quasi esclusivo dei due artefici principali del connubio Focus: Jan Akkerman e Thijs van Leer. Il primo è un ottimo chitarrista, il secondo un curiosissimo tuttofare che a guardarlo oggi sembra Boss Hogg ma che, da gran poli-strumentista, allora si dava arie di poter competere con gente come Keith Emerson al piano, Ian Anderson al flauto e Rick Wakeman ai sintetizzatori. In realtà non riuscirà a raggiungere nessuno di questi, ma la sua verve e il suo eclettismo, daranno un contributo fondamentale al raggiungimento del successo della sua band.

Quanto al disco che mi accingo a descrivere, è l’unico che posseggo dei Focus, che a dire il vero neanche conoscevo fino a pochi mesi fa, ma che, ho la presunzione di pensare, a forza di ascoltare prog e jazz ultimamente, sono riuscito ad assimilare con più facilità rispetto al passato e in parte anche ad accostare per influenze o, per meglio dire, per richiami di stile.

Cosa ho notato? Beh, come ogni disco prog che si rispetti, c’è sempre qualche accenno e rimando ad altri artisti e band, e in questo anche Moving Waves non si fa mancare nulla, vedrete. C’è di tutto dentro, dai Gentle Giants agli Emerson, Lake and Palmer, dai Pink Floyd, soprattutto la chiara impronta gilmouriana di alcuni assoli di Akkerman, ai Genesis di Foxtrot.

Passando a un livello più inconscio, Moving Waves non è quel tipo di disco geniale che te lo ricordi per tutta la vita, diciamo piuttosto che è un lavoro di approfondimento di un genere, il prog, che può essere contestualizzato ma anche risultare sfuggevole e vago. Come disse van Leer: «La nostra musica non è rivoluzione, ma evoluzione». Moving Waves non è altro che una serie di nostalgici frammenti di visioni di un mondo che non c’è, da paesaggi inventati alla rielaborazione della tragedia greca.

Si parte dalla celeberrima Hocus Pocus (la seconda parte del frammento video, la prima è Sylvia, brano tratto dal successivo doppio album, Focus III), famosa formula magica che in realtà non significa nulla se non che nel gergo inglese ha assunto col tempo il senso di «cose inventate». In questo, Moving Waves è tutto un disco inventato, anzi, a tratti è un genere in se e per se nato da zero.

Nella prima traccia potremmo anche trovare alcuni giochi del primo Frank Zappa, che van Leer riadatta alla sua voce, li “evolve” e li trasforma in scampoli di cartoon-rock. Con questo neologismo intendo riferirmi ad alcuni vocalizzi che riconducono a vocine luciferine, quasi van Leer si atteggiasse a Gargamella o a Grande Puffo. È una trovata che abbinata allo yodel e al falsetto, sempre intervallati da azzeccatissimi break di batteria, danno la misura di quanto ambisca allo sperimentalismo questo album e di quanto l’intera musica internazionale sia debitrice a Demetrio Stratos e gli Area.

Focus – Moving Waves (1971)

C’è da aggiungere un altro punto ed è quello relativo alle pieces. In questo loro lavoro, i Focus tradiscono una certa inclinazione al sezionamento dei pezzi, perciò la stessa Hocus Pocus risulta essere una lunga jam di hard rock su cui, a ventate progressive, chitarra, voce e tastiera si sfidano a chi è più virtuoso.

Le Clochard – il barbone – dal titolo potrebbe far propendere su uno di quei brani ricchi di pathos in cui la vena malinconica gioca un ruolo di primissimo piano. È un duo Akkermann-van Leer, un giro di chitarra che pende tra la musica zigana spagnola e la grande maestria di Steve Hackett e Robert Fripp. Sono 2 minuti scarsi di un sofisticato intermezzo, fatto di accordi ampi e ricercati, ma che suonano e stanno lì per proiettare l’ascoltatore verso il disco vero e proprio.

Da Janis in poi l’album assume una fisionomia molto più definita, e si entra nel prog vero e proprio dei Focus, in cui la fa da padrone il flauto del tuttofare van Leer, con Akkermann che risulta presente sia con la chitarra che con un piacevolissimo sottofondo di basso a seguire l’intera esecuzione. Che nei tratti salienti porta a suggerire l’ingresso di un testo che invece non c’è. Janis tradisce grandissime influenze di gruppi della scena di Canterbury, soprattutto quelli che io chiamo “le tre Ca”, cioè Camel-Can-Caravan. Ma potrebbero esserci anche gli Yes e non si offenderebbe nessuno.

Ed eccoci alla doppietta di title tracks. Se ci riferiamo al disco con il suo nome originale (presente anche sul front della copertina), allora il brano di riferimento è Moving Waves. È l’unico brano con un testo di senso compiuto dell’intero disco, le liriche non sono artificiose, personalmente non ci trovo nulla di così poetico, se non un marginale accenno alla vita di comunità, all’operare collettivo, il tutto sotto l’impulso della madre ecstasy. E Van Leer lo preferivo quando cantava la lingua di Satana nel primo pezzo.

Perché i Focus abbiano scelto Moving Waves e non Focus II, la traccia che segue, per intitolare l’album, resta un mistero. Sta di fatto che forse il titolo alternativo di Focus II è stato scelto successivamente dagli stessi fans, più affezionati a questo brano, oggettivamente più entusiasmante e di qualità. Oltre che molto orecchiabile, in cui per la prima volta la Les Paul di Akkerman tira fuori un suono caldo, avvolgente, che sale o scende in picchi di creatività a tratti mostruosamente melodica.

È qui che ho iniziato a percepire anche i colori, prima era tutto sfocato o leggermente in seppia, da questo punto in poi emergono i verdi e i rossi che saranno di Orfeo ed Euridice, i gialli zolfo e gli arancio di Akkerman. Focus II è il giusto intro alla traccia più affascinante di tutto l’album, Eruption, della durata di ben 23 minuti, in questo si va ad inserire nel solco della musica operistica e da libretto tanto cara al prog di maniera.

La scansione prevede ben 16 pieces che oscillano dai pochi secondi a frammento ai 5 minuti e poco più del più lungo, The Bridge. La storia è quella di Orfeo ed Euridice della quale i Focus offrono un quadretto della storia, quello di Orfeo e della personificazione della Risposta, Answer. È l’unico dato certo che se ne può dedurre, assieme a Euridice. Per il resto compaiono anche diversi personaggi credo fittizi, come Pupilla e Tommy.

Si parte dalla prima Orfeus (1:22), che è un soave ingresso nel mondo dell’Ade, ancora tutto da scrutare e in cui Orfeo ci giunge per la prima volta, traghettato da Caronte, per cercare di riportare la sua sposa Euridice nel regno dei vivi. È un brano che funge da prologo e allo stesso tempo invita a penetrare nella prima Answer (1:35), un botta e risposta tra l’organo di van Leer e la chitarra di Akkerman, stessi accordi, stessi tempi, a domanda giunge risposta. È il primo, evidente segno che Tarkus degli Elp ha fatto breccia anche nei Focus.

Riprende la seconda Orfeus (1:20), ed è identica alla prima se non fosse per l’ingresso dei rulli di tamburo a dare una tinta epica al componimento rock. Poi una Answer (0:52) ancor più determinata, accentuata dagli assolo di batteria di Pierre van der Linden, che cito solo qui in quanto molto più presente rispetto al ruolo marginale o di cesura nel resto del disco.

Ma è con Pupilla (1:03) che si entra nel marasma del dramma, si ode il canto (le sirene che Orfeo aveva incantato con gli Argonauti?) e si impone una chitarra molto pinkfloydiana, che si sviluppa lungo il successivo Tommy (1:45): il motivo è una ripresa del brano Divergence di un altro gruppo olandese, i Solution di Tom Barlage, che è anche l’autore di questo rifacimento. Ricorda molto il Gilmour di Animals. Così come la seconda Pupilla (0:34) è quasi solo un basso che sembra un tributo a Roger Waters. Probabilmente non è così, e io sto già troppo in clima pre-concerto (di Roger Waters ovviamente), ma il ricordo in me è molto pressante e sebbene mi sia sforzato che questo non dovevo assolutamente scriverlo, alla fine l’ho fatto.

Ecco l’ultima Answer (0:21), ancora un omaggio ai grandi pianisti, Emerson, Wakeman, ma poi entra in scena Akkerman, e questo è il momento più estatico e psichedelico dell’intero album, direi che anzi la successiva The Bridge (5:20) ne sia il culmine. Il dramma prende quota, gli atti si affastellano e ammetto che dopo l’apice ho perso la voglia di descrivere il resto, ma è comunque una repentina discesa verso il ritorno nel mondo dei vivi. Seguono Break (0:24), Euridice (1:40), Dayglow (2:09), Endless Road (1:36), scritta da van Linden ed espressamente concepita per la batteria.

Attorno ai 20 minuti chiudono le ultime Answer (0:34), Orfeus (0:51) ed infine il commiato di Euridice (1:37).

Questo album è del 1971, l’annata è una garanzia, ma anche un’arma a doppio taglio, già allora rischiavi di essere banale solo a ripetere con la tecnica ciò che poco prima era stato scoperto. Ripeto, Hocus Pocus non mi ha sorpreso per il materiale innovativo, sebbene qualche scampolo di sperimentazione c’è, è evidente. Ma credo che non pretenda affatto di essere innovativo. È semmai un’opera a carattere enciclopedico, in cui il prog fa capolino anche ai fratelli meno “colti”, quasi un tributo a vari generi e stili. E in questo mi ha appassionato. Voto 7,9

 



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