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Francesco Balsamo - Cresce a mazzetti il quadrifoglio

Da Ellisse

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**** Ghérasim Luca, La fine del mondo, book-trailer di 19 pag, con estratti, QUI




Francesco Balsamo - Cresce a mazzetti il quadrifoglio
Francesco Balsamo - Cresce a mazzetti il quadrifoglio - Il Ponte del Sale, 2015 (con un disegno dell'autore)

Diviso in dieci sezioni numerate, più una "zero" che contiene un solo breve testo ("fare la gallina delle cose in miniatura / come faccio io / e con tutte le parole / sparire nel calzino nero di una poesia") che è viatico ed avvertenza, ed insieme segno di modestia: questo ultimo libro di Francesco Balsamo, già presente su IE QUI e QUI, rappresenta un'altra prova di scrittura raffinata, lieve, sublimata e volatile come avevo scritto di "Ortografia della neve", e che tuttavia permane in chi legge con una suo leggero peso, se mi si passa l'ossimoro. Motivata con un rapporto costante con il quotidiano, con i piccoli segnali (le "cose in miniatura") del vivere (e del morire), con la natura, questa poesia è soprattutto un confronto diuturno con la scrittura in sé, come arte e rappresentazione e come esercizio in diversi sensi spirituale, ed è davanti al foglio, sempre presente e spesso citato quanto lo fu il bianco della neve, che avviene il dialogo più importante con essa (e "con le cavallette della punteggiatura"), un appuntamento galante e innamorato, un rispecchiamento ("...perdersi di vista / con la faccia rivolta al foglio"). E certo, a proposito del foglio, serve ricordare che Francesco è un artista grafico e pittore di notevole valore (basta dare un'occhiataQUIper farsene un'idea), in costante tensione con i bianchi ed i neri della sua visione. Sospetto che Balsamo sia davvero uno di quei rari che si pongono davanti ad un foglio bianco disteso sul tavolo, in attesa che le parole insistenti ("le parole sbattono come porte") si rapprendano in qualcosa di (altro ossimoro) provvisoriamente definitivo. In un punto il poeta scrive "qualsiasi cosa si scriva / lentamente la gela la carta", quasi un rammarico di rinuncia ad altre possibili alternative, ad altri bivi attraenti a cui questo congelamento pone fine. Perché è poesia tesa in uno sguardo sul presente fluente, niente affatto cristallizzato, e che lancia segnali più che bastanti. E perciò priva di pathos (e quindi di patetismi) ed anche di evidenti nostalgie, tanto il presente è qui ed è ancora tutto da vedere. E tuttavia alla fine il poeta è soddisfatto della scelta, di parole o forme che sia, tanto che dice "annuisco allora quando scrivo...", quando giunge a "contrabbandare cose piccole in un foglietto / cose ordinate come per un viaggio [...]". Le cose piccole, le cose in miniatura, a cominciare dai piccoli segnali ammonitori che ci lanciano i morti e i vivi, sono elemento da tenere fondamentalmente presente, in tutta la produzione di Balsamo. Niente di minimalista, naturalmente, poichè il "piccolo" è un piccolo percepibile, che cioè penetra nella coscienza individuale, anche quando è un bosco come nella sezione "cinque", ed è significante quanto un petalo in un haiku di Issa, ed alla fine rivela. Un'attenzione che si riflette anche nella sintesi della gran parte dei testi e, all'interno del testo, nella concisione. Balsamo ha la resa migliore, la sua stanza prediletta, nella brevità, nell'intimo raccoglimento di testi conclusi in mezza pagina. E in essi l'occhio talvolta si appiglia a cose che riempiono il verso, il singolo verso, che potrebbe essere a sua volta il nucleo di un'altra poesia ("ci si risveglia come un orto in salita – / mandare via le cornacchie – // la luce concentrata delle otto – / l'aria sembra una bandiera – // le dita sono dieci minuti esatti – / bambini a fiori stanno al centro della piazza –"). Questo appiglio alle cose è anche una specie di inventario, di autocertificazione di esistenza in vita, ma privo di un'idea di possesso, come una semplice constatazione di esserci che però è poco antropocentrica, poco egoica, in un certo senso di una humilitas anche etimologicamente terragna, con una nota malinconica ma non acida né arresa né risentita, e con un registro talvolta lievemente (lietamente) metafisico. La brevità, il linguaggio "ordinario", la familiarità delle cose sono poi garanzia, per così dire, della permeabilità quasi osmotica di questa poesia, della possibilità come lettori di accedervi velocemente, fruirne liberamente senza decodifiche o parafrasi, passando così direttamente al campo aperto dei possibili sensi, (anche quando l'indefinitezza è totale come in questa piccola poesia: "ora l'ho raccolta / col mestolo di legno della tosse // come se nulla fosse"), derivandone una suggestione per così dire ontologica, primaria, che "arriva". (g.c.)

aspetto le prime luci del tavolo –
i fischi nei bicchieri –
il bestiario delle vecchie monete –
i soldini dei diminutivi, per te
la neve del convincimento,
che si veda compatta sul davanzale –
aspetto di premere la fronte
sulla fronte del tavolo –
di poggiare un piccolo bene
sul viso in discesa: giù, lento –
di cadere in ombra
per illuminare una cima –
aspetto di cominciare coi fiori
che c'erano prima,
di scegliere con dedizione
il seguito di quei fiori –
e intanto scrivo di morire
come si preme una parola,
come si resta legati a una maniglia,
come la fortuna impigliatasi sul fondo –
aspetto per ore

l'ora che si manda via di notte,
che inizi la pioggia
col pane dell'aria in mezzo
***
contrabbandare cose piccole in un foglietto
cose ordinate come per un viaggio
sceglierle da tutti gli angoli del tavolo
e perdersi di vista
con la faccia rivolta al foglio
ma dirlo altrimenti il giorno
che così è solo in ombra
ciò che vorrei per la mia matita
è un merletto picchiettato con i denti
e che crescesse un ciuffo d'erba in cima
annuisco allora quando scrivo...
***
ora s'ammira in giacca e cravatta
sta in piedi davanti al foglio
silenzioso di parole
così
senza volerlo
manda via i giorni
e non trattiene più
le piccole rondini della giacca
ora basta
tenersi per cadere
con la faccia sul foglio
***
ad Angela
ogni risveglio
è un balzo fuori dal cuscino –
la lucida maniglia di ogni mattina –
il giorno si apre da sé –
servirebbe scriverti
cominciando dal pane –
uno vive in piedi come il grano –
il grano di domenica due settembre –
gli uccelli s'annidano nell'aria
e io metto faccia al cielo le parole
***
lui è una forma delicata
un colosso da credenza
se ne sta a braccia spalancate
segna i margini del nulla
di un piccolo spazio domestico
attutisce così lo spigolo di un pomeriggio
si restringerebbero ancora di più i suoi foglietti
se scrivesse i progetti per l'indomani
scrutare tutta la terra in una foglia
è il risultato di una stretta convivenza con certe parole
a tratti ride come un melo selvatico
anche questo è il risultato di una stretta convivenza con
certe parole
***
qui è facile come per una crepa
farsi strada lentamente,
facile come starsene curvi
dentro una bottiglia,
palmo a palmo
si restringe tutto
qui la morte è una cosa piccola,
di cerino,
un piccolo giro di luce
per una fine breve e nera
e dopo una seconda o dopo una terza
minuscola luna, qui
dal tuo corpo fioccano fiori
e si spandono al suolo
***
morto s'è già messo a mormorare,
fino a turbare tutti
come se un albero di notte si avvicinasse
dal fondo del viale
per una confessione:
un tremore di foglie adesso
batte un colpo di tosse,
ancora uno, come un salto dentro una siepe:
io zitto zitto faccio
la traduzione di ogni fruscìo
***
i nostri cari vivi
che per loro conserviamo
scatolette di terra,
dove sbadatamente buttiamo
noccioli di pesca
o di altri frutti, dipende
dalla stagione,
e i nostri cari morti si allungano
familiari come fiori
si alzano in punta di piedi e vivono,
i nostri cari vivi
***
si raduna l'inverno
l'abbiamo fatto sedere in ogni angolo
ma non sta né dove né dopo
sembra
fermo in un crepitio di parole sue
ha la lingua dell'allocco
o del gufo
ma né dopo né dove sembra
possibile ricambiare...
***
i vecchi sono nevi vicine
il bianco fa sollevare loro le braccia
e si guardano cadere verso l'alto
nel cielo bianco dei capelli
uno stare sul filo dei sentimenti
le case fino alle ginocchia
mentre remano lenti nel buio
possono attraversare le porte a occhi chiusi
ciascuno con la torcia della voce
borbotta e si riscalda
luccicanti come acque guardano il cielo
e il bianco fa abbassare loro le braccia
***
morire è l'orto delle mani
e dei piedi

è anche una tecnica di neve
come un pensiero di dedizione –
morire è stare in casa
con una bandiera nera –
è anche un ricamo
riposto con cura negli armadi –
morire è riconoscere l'aria solo
con una pantofola

è anche stare in mezzo agli altri
e piegarsi con parole proprie
***
poi pace
sale
come un buon profumo
di colazione
ancora in tempo
anche quando è tardi
un miracolo tenue
dunque
la si stringe così
al mattino
accanto a un pentolino
come uno dei molti zeri
del fumo di una tazza
tutto qua dunque
pace
facile come uno zero
poi pace
anche quando manca
e punge di freddo
e mi gela la coda del foglio


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