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Gay, da tabù a business

Da Pianetagay @pianetagay
L'omosessualità a Tel Aviv non è più un tabù, è sempre di più un businessL'omosessualità a Tel Aviv non è più un tabù, è sempre di più un business. Il ministero del Turismo israeliano lo ha capito da tempo, e in particolare negli ultimi tre anni ha messo a punto strategie di comunicazione ad hoc per consolidare la fama di Tel Aviv "capitale gay friendly del Medio Oriente".
Sebbene non esistano statistiche ufficiali, stime approssimative dicono che la mossa stia pagando. E la notorietà a livello internazionale cresce. Lo scorso mese, quella che già veniva soprannominata la "Barcellona israelian", in virtù dell'intensa movida notturna e dei tanti pick-up bar spuntati come funghi nell'ultimo decennio, ha conquistato anche il titolo di "Miglior città emergente per i turisti gay".
Tel Aviv, dove risiede in proporzione la seconda comunità omosessuale al mondo, dopo quella di San Francisco, ha battuto anche metropoli come New York, Berlino, Toronto. Il sindaco laburista, Ron Huldai, si frega le mani soddisfatto: "E' la vittoria di una città libera, dove ognuno può sentirsi orgoglioso di se stesso", ha commentato sul proprio profilo Facebook.
Del resto, combattere l'omofobia paga. Secondo Thomas Roth, presidente di Community Marketing (centro di ricerca con base a San Francisco, che si occupa nello specifico del mercato gay), "il turismo arcobaleno contribuisce ormai per oltre il 10% all'industria del turismo israeliana, ed è un settore in crescita continua". A Tel Aviv non si contano i locali e le feste gay-friendly, o le spiagge dedicate; per strada o al mare, pochi si scandalizzano se vedono una coppia dello stesso sesso tenersi per mano o scambiarsi effusioni.
"Tel Aviv - aggiunge Adir Steiner, che ogni anno coordina la tradizionale e coloratissima parata Gay Pride locale, tanto lontana dalle tensioni della "identitaria" Gerusalemme - ha un grande appeal perchè è un'isola felice in una regione - il Medio Oriente - dove l'omosessualità suscita ancora reazioni diffuse di emarginazione e repressione".
Israele stesso, se si eccettua la zona franca di Tel Aviv e dintorni, non fa in fondo del tutto eccezione. "La nostra realtà, e ancor più quella dei trans, è molto contraddittoria in questo Paese", dice Shaul Gonen, attivista gay e membro di Agudah, unica associazione GLBT attiva in tutto il Medio Oriente".
D'altronde, Gerusalemme è ad appena sessanta chilometri da Tel Aviv: e lì ebrei ortodossi e arabi islamici osservanti rappresentano i due terzi dei circa 800mila abitanti. Per molti di loro "l'omosessualità è una malattia, una perversione da reprimere", come ammette Kobi Arieli, giornalista religioso convinto, ma di ampie vedute. "Fra gli ebrei di rigida osservanza - rimarca - l'omosessualità è gravemente contraria alle leggi divine.
Nella Torah sta scritto: "Non avrai con uomo relazioni come si hanno con donna. E lo stesso vale per le relazioni lesbiche". Nei quartieri ultra-ortodossi, come in quelli arabi, intolleranza e discriminazioni sono frequenti. I ragazzi che trovano il coraggio di fare coming out sono di solito costretti a tagliare i ponti con la famiglia e la comunità, e molti di loro finiscono in strada.
Persino a Tel Aviv resta impunita la macchia della "strage del 2010", quando uno sconosciuto (mai identificato, al di là dei sospetti sollevati dalla polizia su uno squilibrato vicino agli ambienti dell'estrema destra nazionalista religiosa ebraica) fece irruzione in un centro di sostegno psicologico per giovani omosessuali nel centro della città, seminando la morte con un'arma automatica. Un ricordo sanguinoso che sembra voler sottolineare come orgoglio (gay) e pregiudizio, in Israele, vadano ancora a braccetto

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