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Gesti indimenticabili (Messaggio in bottiglia 7^ puntata)

Creato il 29 ottobre 2012 da Lundici @lundici_it

Come in tutte le battaglie in cui si contrappongono bene e male, emergeva illuminante la speranza di veder sconfitto il cattivo (il carnefice) per mano del buono (la vittima). Nella fattispecie era ben delineata la figura del bene – i lavoratori – ma al momento non si poteva asserire lo stesso per il male – il nemico.

A tal proposito mi ricorre alla mente un pensiero di Ernesto “Che” Guevara, che ho già citato in un mio libro ma che ritengo opportuno menzionare ogniqualvolta se ne presenti l’occasione.

E quale migliore occasione se non in questo periodo di forti tensioni, nazionali e internazionali, che si ripercuotono – come sempre – sul più debole?

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Quel pensiero, che a breve scriverò, il “Che” lo dimostra come fa con tutti i suoi gesti, vale a dire con la sua persona.

Non mi dilungo sulla grandezza umana di Che Guevara al quale vorrei dedicare molte più parole ma, per ora, bastino le sue: «Ogni uomo deve leggere, almeno mezz’ora al giorno, per combattere il nemico». 

Questo pensiero lo rivolgo a tutti e in particolare ai lavoratori, non solo ai dipendenti della Dime Falegna protagonisti del messaggio, che in questo momento stanno combattendo contro un nemico a volte invisibile o ben coperto da veli a trama fitta.

Nel frattempo le mie ricerche proseguivano senza risultati, fino a quando non mi imbattei nel numero di telefono di Marcello Marchesi. Prima che la rete se lo riprendesse in qualche modo, lo trascrissi su un foglietto. D’impulso lo composi ma non inviai la chiamata. Il numero non era inserito nelle rubriche consultabili da chiunque e ciò mi frenò. Ci riflettei fino al giorno dopo quando, alle dieci e trenta del mattino, alzai la cornetta e ricomposi quel numero. Un solo squillo e… «Pronto».  

Una sola comune parola fu in grado di dischiudermi un mondo, di invitarmi ad entrare in una storia molto speciale.

Quel tono flebile corrispondeva alla voce di Sofia, la “presenza costante” al fianco di Marcello. Le spiegai perché stavo chiamando, che stavo leggendo il messaggio in bottiglia, poi le chiesi di Marcello, come stava e… Mi sembrava di parlare con una persona che conoscevo da tempo e la stessa sensazione percepivo in lei, che m’interruppe dicendo: «Marcello sta bene ma, per motivi molto seri, si è dovuto allontanare da me, se vuole… anzi, se non le dispiace, potremmo darci del tu».

«Per me va benissimo» le risposi, trattenendo a stento la commozione.

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Poi lei proseguì: «Se vuoi, potrei raccontarti tutto da vicino».

«Ne sarei onorato.»

«Ti lascio l’indirizzo.»

Ci salutammo nella reciproca speranza di vederci quanto prima.

Alla mia mano tesa, Sofia aveva risposto come solo una persona speciale può fare. Ma quanto fossero profondi lei e suo marito, potei comprenderlo appieno soltanto qualche tempo dopo, quando cominciai ad ascoltare, dalla viva voce di Sofia, la storia di Marcello Marchesi.

Conclusa l’intensa telefonata, ne ripercorsi tutte le parole, tutti i toni e le sfumature, intanto che stringevo tra le mani quel foglietto su cui avevo vergato l’indirizzo… avrei dovuto percorrere parecchi chilometri, volevo organizzarmi in modo tale da avere molto tempo a disposizione.

Intanto fremevo al pensiero di raccontare il breve ma intenso scambio agli amici che avrei incontrato proprio per proseguire nella lettura di una parte importante della vita trascorsa da quella coppia, che riconoscevo ancora più forte.

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Poteva sembrare quasi accavallare racconto e vita reale ma, proprio mentre mi dirigevo verso il lungomare, pensai di dare ad entrambi un’ulteriore eco, per la cui realizzazione avrei chiesto il consenso a Sofia… l’idea era di racchiudere tutta la storia in un libro.

Di lì a poco raccontai della conversazione e tutti manifestarono stupore e incredulità ma, al contempo, la loro completa disponibilità.

In un battibaleno, mi ritrovai a leggere il messaggio n. 4c.

 

Gesti spregevoli

Come mai sia finito nelle nostre mani quell’importante scritto, è possibile spiegare in un solo modo.

Anche il più abile manipolatore, nei momenti di concitazione, perde la calma ordinaria e succede che qualche particolare possa sfuggire al suo controllo, a quel punto non più impeccabile.

Ecco cosa era accaduto, nella fattispecie, all’indaffarato dottor Notturni.

Solitamente la posta, prima di giungere sulla scrivania di Amedeo Matita, impiegato dell’area amministrativa, veniva visionata sistematicamente dal dottor Ossiero, il quale aveva così l’opportunità di sottrarne quella compromettente.

Ma quel giorno il diligente delegato era fuori di sé, per ragioni a noi oscure, e il suo filtro non funzionò a dovere.

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Quando Amedeo si imbatté in quella lettera, ebbe la nitida sensazione che contenesse verità nascoste. Prima di aprire quel prezioso involucro, quindi, chiamò tutti i colleghi intorno a sé. Quando furono tutti vicino alla sua scrivania, mostrò loro ciò che stringeva fra le mani.

A raccontarlo sembra fantasia, ed invece è ciò che realmente è accaduto a tanti ignari lavoratori.

Il testo ci svelava un atto di infamia, cattiveria e menefreghismo che mai ci si aspetterebbe da parte di un commissario straordinario. Il dottor Notturni, stando a quanto riportavano quelle carte, si rifiutava, nonostante ripetuti appelli, di dar seguito alle richieste manifestate in quella lettera – da parte di un importante gruppo imprenditoriale – per l’ennesima volta.

Il colpo fu devastante. Una possibilità negata, ad oltre duecento lavoratori, a causa di un rifiuto reiterato nel tempo da parte del dottor Notturni. Un rifiuto illogico, assurdo, in contrasto con ogni norma civile, morale e legale.

Dal punto di vista legale, infatti, il compito principe, di un commissario straordinario di una società sottoposta ad amministrazione straordinaria, si estrinseca nella salvaguardia dei posti di lavoro.

Una parte di quella lettera fu trascritta nella seconda missiva che provvedemmo ad inviare agli stessi destinatari della prima. La seconda spedizione, a differenza della prima, avvenne tramite fax ed e-mail. Il timore di un futuro senza lavoro ci spaventava, spedire raccomandate avrebbe significato spendere soldi e, in una condizione di disagio, è meglio usare la massima parsimonia. Fu questa la principale ragione che ci indusse ad utilizzare, da quel momento in poi, soprattutto la posta elettronica quale mezzo per lanciare nell’etere le nostre richieste d’aiuto.

Che ormai quei personaggi fossero ambigui, non era più un mistero, che pensassero soltanto alla loro poltrona, era altrettanto noto, ma per quale scopo si stessero comportando in quel modo, era inspiegabile.

Marcello, ancorché continuasse a lottare, non si sentiva soddisfatto. Non era riuscito a far emergere la mala gestione e ora quelle persone stavano per compiere l’ennesima azione impunemente.

Anche gli altri dipendenti si sentivano scoraggiati mentre vedevano sbiadire il loro recente passato e sfumare l’occasione di ricominciare a lavorare. Quasi tutti avevano il sentore che quella occasione sarebbe stata l’ultima.

Aggrappati alla speranza, si dibattevano senza sosta, in preda a tormenti indescrivibili. Anche i più giovani, stante la disastrosa situazione non solo nazionale, reagivano allo stesso modo dei colleghi più anziani. Anche solo qualche anno prima, fra lavoratori che stessero per perdere il loro posto di lavoro si sarebbero registrate reazioni differenti, a seconda dell’età. La tensione nervosa era ormai presente, in tutti, e spesso era manifestata impropriamente.

Di frequente ci si scagliava l’uno contro l’altro. Non accadeva solo per quello spettro che si aggirava dalle nostre parti, ma soprattutto per la delusione che, giorno dopo giorno, ci stava annientando. Molti, infatti, non si erano resi conto del deplorevole comportamento degli artefici di quella condizione. Ora, presi dalla disperazione, si sentivano impazzire.

Anche Marcello era incredulo, ancorché nei due anni precedenti avesse avuto – da parte loro – ampie dimostrazioni di scorrettezza.

Evidentemente, sarebbe stato impossibile andare avanti immaginando questo triste epilogo. Si poteva mettere in conto la perdita del posto di lavoro per cause lecite, ma non per cause illecite. Questo atteggiamento nei nostri confronti, se da un lato ci caricò di tormenti mai patiti, da un altro ci instillò una tale rabbia che ci permise di avere un approccio nitido, sin dalle prime mosse.

Con rinnovata speranza e con estrema sollecitudine, quindi, ci rimettemmo all’opera.

Il primo impegno ci occupò, sia mentalmente che fisicamente, per tre giorni di fuoco, alla fine dei quali emersero – non senza fatica – due alternative, adire le vie legali o agire autonomamente. Le altre proposte non rientravano nei canoni della liceità e questo diverso modo di risolvere i problemi creò due fazioni contrapposte.

In quel concitato momento ci fu un duro scontro fra Marcello e Gino Sporisi, il leader della fazione contraria. Ovviamente Marcello propendeva per le alternative lecite, come sempre aveva fatto.

Quasi tutti gli astanti erano al corrente di quella particolare ostinazione di Marcello ma soprattutto della singolare maniera che aveva di dimostrare le sue tesi. Fu proprio questo modo che Gino Sporisi tentò di ridicolizzare, con il chiaro intento di sminuirne la sostanza.

Per tutti i presenti, circa centocinquanta lavoratori accorsi da ogni parte d’Italia, fu un testa a testa scoppiettante, durante il quale i componenti

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delle due fazioni, sulla scia dei rispettivi rappresentanti, non disdegnarono toni duri e minacciosi. Ad un certo punto – erano trascorsi circa venti minuti – lo scambio verbale divenne molto acceso. Ne riporto le battute finali.

«Osservate bene, ora il nostro probo Marcello tira fuori dalla valigetta uno dei suoi fogli e così anche noi, poveri mortali, potremo capire…»

All’ascolto di quelle derisorie parole, qualcuno manifestò il suo dissenso, qualcun altro scoppiò a ridere ma la maggioranza piombò in un raggelante silenzio. Forse, in quel preciso momento, ricorse alla mente di quei lavoratori la terribile condizione nella quale era stato costretto a vivere il collega Marcello Marchesi, vessato da quei signori che, ora, stavano riservando un trattamento, anche peggiore, a tutti i dipendenti.

Marcello non si scompose e, fissando negli occhi il suo interlocutore, con voce ferma pronunciò parole il cui riverbero ancora è possibile udire in quell’edificio.

«Una lotta, vinta attraverso il compromesso, rimarrà una lotta persa.»

E poi aggiunse:

«Rivolgersi ad un politico corrotto, o ad altri soggetti di pari risma, per ottenere quello che è un nostro diritto, significherebbe alimentare quel sistema di scambi che proprio noi, ora  più che mai, abbiamo il dovere di contrastare, soprattutto con l’esempio».

Da quella platea, divenuta nel frattempo interamente silente, si levò qualche voce di consenso, poi qualche applauso, anche da parte dei sostenitori della tesi contraria, compreso Gino Sporisi. Dopo un po’ erano tutti in piedi ad applaudire Marcello.

Gino riprese la parola:

«Mi dispiace e chiedo scusa a tutti del mio comportamento» e tese la mano a Marcello, in segno di riconciliazione, il quale contraccambiò il gesto con vigore.

L’epilogo di quella riunione infuse in tutti i dipendenti, anche quelli non presenti, una rinnovata energia ma, soprattutto, un senso di libertà che non provavano da tempo.

Pregni di buoni propositi, dunque, si immersero nel lavoro impegnativo che li attendeva.

Dopo la lettura del messaggio, mi salutarono tutti con un abbraccio vigoroso e prolungato, come se volessero trasmettermi di portarlo a chi, in quel momento, ne aveva più bisogno… a Sofia.

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Mentre mi allontanavo, fui raggiunto dalla voce di Gloria. Corse verso di me e mi porse un piccolo pacchetto:

«Si tratta di un presente per Sofia, potresti consegnarglielo a nome di tutti noi?».

«Ne sarà sicuramente entusiasta, siete eccezionali.»

Carico di questi sentimenti, mi predisposi quindi a quell’incontro molto singolare.


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