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Giorgio Napolitano: “L’antipolitica è quasi diventata una patologia eversiva”, 10 dicembre 2014

Creato il 12 dicembre 2014 da Paolo Ferrario @PFerrario

La critica della politica e dei partiti, preziosa e feconda nel suo rigore, purché non priva di obiettività, senso della misura e capacità di distinguere è degenerata in anti-politica, cioè in patologia eversiva“. Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in un discorso all’Accademia dei Lincei.

La dura critica del capo dello Stato, implicitamente indirizzata al Movimento 5 stelle e alla Lega Nord arriva proprio nel giorno in cui Beppe Grillo e Matteo Salvini, punzecchiandosi a distanza, si contendono l’elettorato di protesta e antipolitico.

“È ormai urgente – ha continuato il presidente – la necessità di reagire” ad una certa anti-politica, “denunciandone le faziosità, i luoghi comuni, le distorsioni impegnandoci su scala ben più ampia non solo nelle riforme necessarie” ma anche a riavvicinare i giovani alla politica”.

“La critica della politica e dei partiti, preziosa e feconda nel suo rigore, purché non priva di obiettività, senso della misura e capacità di distinguere è degenerata in anti-politica, cioè in patologia eversiva”. Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in un discorso all’Accademia dei Lincei. La dura critica del capo dello Stato, implicitamente indirizzata al Movimento 5 stelle e alla Lega Nord arriva proprio nel giorno in cui Beppe Grillo e Matteo Salvini, punzecchiandosi a distanza, si contendono l’elettorato di protesta e antipolitico.

“È ormai urgente – ha continuato il presidente – la necessità di reagire” ad una certa anti-politica,“denunciandone le faziosità, i luoghi comuni, le distorsioniimpegnandoci su scala ben più ampia non solo nelle riforme necessarie” ma anche a riavvicinare i giovani alla politica”.una patologia eversiva”.


dalla: Conferenza del Presidente Napolitano: “Crisi di valori da superare e speranze da coltivare per l’Italia e l’Europa di domani”Accademia Nazionale dei Lincei, 10/12/2014

Non sto quindi – sia chiaro – tratteggiando un’evoluzione lineare e indolore dell’Italia rinata, dopo il fascismo e con la Costituzione, alla politica democratica nella ricchezza delle sue ispirazioni e nel rigore delle sue regole. Non potrei tendere a idoleggiamenti del genere, essendo stato tanto partecipe, anche con responsabilità rilevanti come Presidente della Camera dei Deputati, di un momento cruciale di emersione dei lati più deboli e oscuri di una prassi pluridecennale di gestione dei rapporti politici e del potere di governo.

E’ però vero che è tipico degli anni più recenti il declinare se non il dissolversi di valori e di costumi che avevano retto a lungo, ad esempio nella vita parlamentare, in quella sfera importante della politica che è stata sempre costituita dai rapporti in Parlamento tra tutte le forze politiche che vi fossero rappresentate.

Pur essendosi registrati già in periodi precedenti casi gravi di strappi alle regole e al clima abituali nelle aule parlamentari, mai era accaduto quel che si è verificato nel biennio ormai alle nostre spalle, quando hanno fatto la loro comparsa in Parlamento metodi e atti concreti di intimidazione fisica, di minaccia, di rifiuto di ogni regola e autorità, e in sostanza tentativi sistematici ed esercizi continui di stravolgimento e impedimento dell’attività politica e legislativa di ambedue le Camere.
Di che cosa si è trattato (ed è difficile pensare che stia per cessare)? Quando si verifichi quel che abbiamo potuto tutti seguire, attraverso le cronache televisive, il colpire cioè, impunemente, il funzionamento degli istituti principali della democrazia rappresentativa, non solo si stracciano in un solo impeto una pluralità di valori tradizionali o comunque vitali, ma si configura la più grave delle patologie con cui siamo chiamati come paese civile a fare i conti : quella che penso possiamo chiamare la “patologia dell’anti-politica”.

Essa si è espressa e si esprime in molte altre forme, fuori dal Parlamento, costringendoci a fare più complessivamente il punto sul travaglio che l’Italia ha vissuto dal 1992 ad oggi. Un moto di accesa contestazione nei confronti della politica, e per essa dei partiti e delle istituzioni rappresentative, si era fatto sentire fin dalla fine degli anni ’80 : reagendo ad abusi di potere, catene di corruzione, inquinamenti nella selezione dei candidati a incarichi pubblici e in generale nei meccanismi elettorali. Di qui lo stimolo e il sostegno all’opera della magistratura, simboleggiata dall’attività del pool Mani pulite. Far pulizia nel mondo della politica e riformare regole e istituzioni indubbiamente logoratesi o risultate inadeguate, apparvero i due imperativi della stagione 1992-94.

E risultati non certo irrilevanti si registrarono in ambedue i sensi : con un rimescolamento assai vasto dei gruppi dirigenti dei partiti, addirittura con la scomparsa o dispersione di alcuni di essi, e con la riforma delle leggi elettorali per il Parlamento e per i Comuni. E se si è detto molto su quel che allora mancò, si è stati molto restii a riconoscere gli sforzi che successivamente, nel corso di anni più o meno recenti, si sono fatti : impegni concreti e ulteriori passi sulla via del rinnovamento, inteso ad esempio come superamento di posizioni di privilegio nell’ambito pubblico.

Si possono deplorare i ritardi e le riluttanze con cui le istituzioni pubbliche abbiano effettivamente preso decisioni e operato su quel terreno, a salvaguardia del prestigio della politica o al fine di superarne la crisi. D’altronde, non deve mai apparire dubbia la volontà di prevenire e colpire infiltrazioni criminali e pratiche corruttive nella vita politica e amministrativa che si riproducono attraverso i più diversi canali come in questo momento è emerso dai clamorosi accertamenti della magistratura nella stessa capitale. Eppure, il dato saliente resta quello del dilagare, ormai da non pochi anni a questa parte, di rappresentazioni distruttive del mondo della politica. Sono dilagate analisi unilaterali, tendenziose, chiuse a ogni riconoscimento di correzioni e di scelte apprezzabili, per quanto parziali o non pienamente soddisfacenti.

Di ciò si sono fatti partecipi infiniti canali di comunicazione, a cominciare da giornali tradizionalmente paludati, opinion makers lanciatisi senza scrupoli a cavalcare l’onda, per impetuosa e fangosa che si stesse facendo, e anche, per demagogia e opportunismo, soggetti politici pur provenienti dalle tradizioni del primo cinquantennio della vita repubblicana. Ma così la critica della politica e dei partiti, preziosa e feconda nel suo rigore, purché non priva di obbiettività, senso della misura, capacità di distinguere ed esprimere giudizi differenziati, è degenerata in anti-politica, cioè, lo ripeto, in patologia eversiva. E urgente si è fatta la necessità di reagirvi, denunciandone le faziosità, i luoghi comuni, le distorsioni, impegnandoci in pari tempo su scala ben più ampia non solo nelle riforme istituzionali e politiche necessarie, ma anche in un’azione volta a riavvicinare i giovani alla politica valorizzando di questa, storicamente, i periodi migliori, più trasparenti e più creativi. Un tale impegno, volto a rovesciare la tendenza alla negazione del valore della politica, e anche del ruolo insostituibile dei partiti, richiede l’apporto finora largamente mancato della cultura, dell’informazione, della scuola.

Certo, so bene che fatale è stato, per mettere in crisi soprattutto l’avvicinamento dei giovani alla politica, l’impoverimento culturale degli attori e dei punti di riferimento essenziali, cioè dei politici e dei partiti. L’ho percepito e l’ho scritto quasi 10 anni fa, nella mia autobiografia politica, scritta anche in vista del commiato da pubbliche responsabilità. Insisto sul dato dell’impoverimento culturale, inteso come smarrimento di valori, verificatosi anche per effetto di uno spegnimento delle occasioni di formazione e di approfondimento offerte nel passato dai partiti in quanto soggetti collettivi dotati di strumenti specifici e qualificati. E’ stato questo un fattore decisivo anche di impoverimento morale. Perché la moralità di chi fa politica poggia sull’adesione profonda, non superficiale, a valori e fini alla cui affermazione concorrere col pensiero e con l’azione. Altrimenti l’esercizio di funzioni politiche può franare nella routine burocratica, nel carrierismo personale, nella ricerca di soluzioni spicciole per i problemi della comunità, se non nella più miserevole compravendita di favori, nella scia di veri e propri circoli di torbido affarismo e sistematica corruzione.

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