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Giuseppe Lombardo Radice. «Io sono tu sei noi siamo»: maestro e allievo, paradigmi della perfetta individualità

Creato il 05 marzo 2012 da Sulromanzo

Giuseppe Lombardo Radice. «Io sono tu sei noi siamo»: maestro e allievo, paradigmi della perfetta individualitàNella pluralità degli indirizzi, nell'arbitrarietà dei metodi e nella molteplicità delle riforme, cercare delle sicurezze per valutare il sistema scuola è oggi utopico? Quando si può dire con certezza che la scuola ha fallito? E, soprattutto, in che modo tutto il sistema contribuisce alla formazione dei futuri uomini e donne?

La lettura di Lezioni di Didattica e Ricordi di Esperienza Magistrale di Giuseppe Lombardo Radice, Direttore Generale dell'Istruzione Elementare, dal 1922 alle dipendenze dell'allora Ministro dell'Istruzione Giovanni Gentile, fornisce senz'altro una risposta concreta, interessante e originale: l'istituzione scolastica non esiste laddove venga escluso, di fatto, il percorso formativo; il suo valore e la sua utilità non possono e non devono risolversi in sterile nozionismo; il fine ultimo non è la trasmissione della conoscenza, il raggiungimento degli obiettivi minimi in ogni disciplina, per quanto questi possano essere importanti; il fine ultimo, in realtà, è il mezzo stesso, la serie pressoché infinita di sfide, sconfitte e vittorie che caratterizzano la vita nella scuola.

È per questo che il maestro non può escludere dal suo modus operandi una piena partecipazione alla vita scolastica del bambino, il contributo alla scoperta e alla ricerca di se stesso nel mondo. Il maestro, inquadrato in un contesto sociale che esercita senz'altro un'influenza notevole, è uno tra i principali artefici della forma dell'uomo prima, del cittadino, poi. La grande utilità dell'istituzione scolastica nel suo complesso, dunque, non sta certo in ciò che si apprende ma in ciò che si fa per apprendere, nel percorso che porta alla conoscenza.

Il maestro non può servire, insomma, "il piatto bell'e pronto": può fornire gli "ingredienti", certo, ma la preparazione spetta a ogni singolo allievo; deve esserci, ed è importantissimo, ma la sua presenza deve consistere solo e soltanto in assistenza; non in invadenza. Soltanto così tutti gli studenti potranno dire di aver preparato il proprio "piatto"; di aver messo in discussione loro stessi per il raggiungimento dell'obiettivo. Citando Plutarco, " il fanciullo non è un vaso da riempire, ma una fiaccola da accendere ".

In un clima di forti cambiamenti e di grande rottura con il passato, nutrendosi delle idee di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, ma non solo, Giuseppe Lombardo Radice, che non era di certo un filosofo, propone un approccio nuovo all'educazione del fanciullo:

" Sapere - scrive in Lezioni di Didattica - non solo è conquistare ciò che s'impara (sforzo, attenzione, dominio di sé, sincerità, sono sempre inclusi in un atto di sapere); ma è anche ordinare e approfondire la propria coscienza. Questo ordinamento e approfondimento non cessa mai, perché è continuo lavoro d'ogni anima, che torna su di sé, si guarda dentro, si corregge; in una alternativa di sconfitte e di vittorie, di smarrimenti e di riconquiste di sé ".

Metodi completamente incentrati sugli obiettivi e poco o niente sul contributo dell'allievo, dunque, sono decisamente controproducenti, e le basi di questo approccio non sono state di certo gettate solo agli inizi del Nuovo Millennio; già nei primi anni del Novecento, infatti, il pedagogista svizzero Adolphe Ferrière contestò apertamente l'orientamento della Scuola Passiva, per proporne uno decisamente puerocentrico: nell' École Nouvelle è il bimbo al centro delle dinamiche, e non l'insegnante, che deve "limitarsi", invece, a fornirgli tutti gli strumenti necessari alla sua autoeducazione; quei mezzi che gli permettono, cioè, di partecipare attivamente, e mai passivamente, alla sua formazione.

Giuseppe Lombardo Radice. «Io sono tu sei noi siamo»: maestro e allievo, paradigmi della perfetta individualità
L'attenzione è incentrata soprattutto sull'infanzia; non è utopico, né fuori luogo, pensare, però, che una tale impostazione possa essere importata, seppur con i dovuti adattamenti, nella scuola secondaria e nelle università. Il pensiero di Antonio Gramsci, in tal senso, calza a pennello. Contro le nascenti università popolari, infatti, scriveva che:

" I dirigenti dell'Università popolare [...] non pensano che [...] lo studente quando arriva all'università è passato attraverso le esperienze delle scuole medie ed in queste ha disciplinato il suo spirito di ricerca, ha arginato col metodo le sue impulsività da dilettante, è divenuto, insomma, e si è scaltrito lentamente, tranquillamente, cadendo in errori e rialzandosene, ondeggiando e rimettendosi sulla via diritta. Non capiscono questi dirigenti che le nozioni, avulse da tutto questo lavorio individuale di ricerca, sono né più né meno che dogmi, che verità assolute. Non capiscono che l'Università popolare, così come essi la guidano, si riduce ad un insegnamento teologico, a una rinnovazione della scuola gesuitica, in cui la conoscenza viene presentata come qualcosa di definitivo, di apoditticamente indiscutibile. [...] Si è ormai persuasi che una verità è feconda solo quando si è fatto uno sforzo per conquistarla. Che essa non esiste in sé e per sé, ma è stata una conquista dello spirito ".

Ma la bellezza di tutto il suo discorso sta nelle righe successive:

" E pertanto gli insegnanti che sono maestri, danno nell'insegnamento una grande importanza alla storia della loro materia. Questo ripresentare in atto agli ascoltatori la serie di sforzi, gli errori e le vittorie attraverso i quali sono passati gli uomini per raggiungere l'attuale conoscenza, è molto più educativo che l'esposizione schematica di questa stessa conoscenza ".

La lezione cattedratica, quindi, dovrebbe lasciar spazio a esperimenti, proposte alternative e concrete; a tutto ciò che spinge il discente lontano dai libri, ma con i libri sempre a portata di mano, verso il cuore della disciplina, a prescindere dai suoi contenuti, per far sì che la scuola secondaria e l'università non licenzino allievi imbottiti di informazioni destinate, prima o poi, a finire nel dimenticatoio; bensì, cervelli pensanti con basi solide, sperimentate, ottenute con fatica e sudore, sbagliando e riprovando, con l'aiuto del docente, assistente sì; invadente, no.

"Chi insegna - scrive Lombardo Radice -[...] ha innanzi a sé [...] nientemeno che la vita, nella sua meravigliosa ricchezza di anime, mai identiche, ciascuna delle quali ha un suo problema, diverso da tutti i problemi delle altre, nel mentre pur tutte tendono le proprie forze a unificarsi e pulsare concordi. [...] Il libro del maestro non è quello che è composto prima che egli insegni, ma quello che vien componendo nell'atto di insegnare: cioè lo stesso apprendimento degli alunni; la loro mente che si svolge. Così egli nel corso del suo lavoro rievoca le pagine già scritte in quelle anime, rimettendole in questione perché rivelino i loro difetti e i loro pregi; e provvede alla prosecuzione dell'opera, predisponendo gli elementi nuovi".

Se si dovessero attribuire delle parole-chiave a tutto il progetto, queste sarebbero senz'altro "individualità" "originalità" e "sincerità", le stesse a cui Lombardo Radice fa riferimento in Lezioni di Didattica. Parte integrante dell'individualità, della forma "prima", quella con cui il bimbo si presenta a scuola, insomma, non poteva essere altro che il dialetto, almeno nella maggior parte dei casi. Non si spiegherebbe, altrimenti, perché gran parte dei governi fino al Fascismo, e il Fascismo stesso, siano intervenuti sulla questione, quasi tutti allo stesso modo; cercando, cioè, di eliminare drasticamente l'unico idioma del bimbo, una " [...] lingua viva, sincera, piena, [...] la lingua dell'alunno e perciò (se è vero che il presupposto della lezione è l'alunno) l'unico punto di partenza possibile a un insegnamento linguistico ".

Ma l'individualità è anche altro:

" L'italiano d'un secolo e l'italiano d'un altro sono due lingue diverse, in funzione di due coscienze diverse; ogni età ha la sua anima e si crea il suo linguaggio. Non solo, ma nella stessa età ogni scrittura ha la sua lingua, il suo italiano, forma e sostanza insieme: il suo intimo essere; e ogni parlante, anche il più modesto e ignoto, si forma anche esso un linguaggio che è estrinsecazione del suo mondo ".

La lezione di Croce pare evidente: la forma e la sostanza di un tempo e di ogni singolo intuente non possono essere riprodotte, così come non può esserne riprodotto l'"io". In questo senso, il linguaggio è testimone dell' esistenza di una forma e una sostanza uniche, che cambiano da bimbo a bimbo, da adolescente ad adolescente, da intuente a intuente. Da cittadino a cittadino. Individualità, dunque, è sinonimo di originalità.

E, in effetti, in uno dei momenti più brillanti di Lezioni di Didattica si legge che:

" Parla soltanto chi si esprime originalmente; cioè chi crea la sua parola, conferendole ogni volta il significato che viene dal contesto; e il contesto della parola è l'anima. Chi non ha originalità non parla, ma emette dei suoni; si illude di parlare e fors'anche illude gli altri; ripete, non crea; imita, non intuisce; accetta passivamente una maschera di pensiero, non ragiona per sé, nel suo intimo. Educare linguisticamente, è né più né meno che educare alla originalità. La qual cosa [...] non altro significa che sincerità, e questa non è privilegio raro di eletti, ma può diventar patrimonio di tutta la più modesta umanità, dovendo ogni sana creatura, per piccola che sia, sentire se stessa, guardarsi nell'anima, e parlare a quel modo che detta dentro ".

Sono proposte di quasi un secolo fa. Quanto di queste idee vive in tutto il sistema scuola oggi?


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