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Giuseppe Miggiano e un Orlando Furioso… Salentino

Creato il 12 ottobre 2011 da Cultura Salentina

Vi racconto la storia di un Orlando Furioso rivisitato (e rifatto) da quel fine elegante umanista, critico e saggista, che è il prof. Luigi Scorrano, e adattato per la scena dal cast della “Calandra”, con la sapiente regia di Giuseppe Miggiano, un salentino nato in Lombardia e ritornato nella propria terra a “miracol stupire” con la sua voglia di lavorare, di fare, concretamente, sia in senso artigianale (è un eccellente tipografo) che in quello artistico. Insomma, un Orlando Furioso…salentino. Stavolta cominciamo dalla… fine.

Il pubblico se ne va soddisfatto e divertito, e lo dimostra, anche, con un lungo applauso che non è solo di cortesia, un applauso che accomuna tutti, attori, scenografo, elettricista, costumista, e, naturalmente, regista e autore; il pubblico è grato di aver assistito ad uno spettacolo che si rifà al teatro popolare antico, ma anche al varietà; gli attori ringraziano con inchini, salamelecchi e battimani, maschere spade e pennacchi, dal loro carro di Tespi, ma potrebbe essere anche il “Bagaglino”, tanto sono intercambiabili; mimi, istrioni, saltimbanchi, maschere, che salutano dal carrozzone della Commedia dell’Arte, ma anche marionette del teatro dei pupi siciliani, o del teatrino televisivo di “Avanzi”, un pastiche, insomma, in cui non mancano i riferimenti “culti”, le macchiette, i toni farseschi o grotteschi e qualche gratuità, ma senza mai valicare il buon gusto, senza mai scivolare nella volgarità. Del resto, come direbbe Garboli, ognuno ha i suoi classici, le proprie esagerazioni, il proprio solco predestinato, al di là delle paratie dello stabile, delle regole scritte e non del teatro e di quelle della letteratura, ognuno fa il teatro che sa (e puo’) fare, oltre il limite dei tempi, nelle regioni più segrete della fantasia e del paesaggio che sta dentro di noi, di quel fiume segreto che scorre, incessantemente, e si arresta o si ingrossa a secondo delle più pure casualità, incontri, occasioni fortuite, alleanze improbabili da cui il teatro trae continua linfa e alimento. Qui più che Ariosto sembrerebbe Moliére, con la rappresentazione di una società in cui tutto è malato, folle, ed essere savi è un assurdo. Infatti lo stesso Orlando non desidera rinsavire e rimane “furioso”, cioè privo di senno.

Ma facciamo un passo indietro e torniamo all’inizio, a luci in sala, sipario chiuso. Ero vicino a Luigi Scorrano, e gli dicevo sono proprio curioso di vedere come hai fatto a far diventare un testo teatrale plausibile un poema di quarantasei canti e 4842 ottave (d’oro), per non parlare dei quattrocento et ultra personaggi che vi compaiono. Io sono rimasto all’Orlando di Ronconi, alla giostrina coi “cavalieri, l’arme e gli amori”, ma so che hanno fatto l’Orlando nelle carceri di Volterra e forse anche Eugenio Barba, in piazza tentò qualcosa di simile, coi suoi cento attori di cento paesi.

Lui mi sorrideva con serafica ironia: non è mica vero che io sia il solo autore, loro – e mi indicava dietro le quinte dove erano in tensione gli attori e il regista – sono coautori. Ed ecco che si accendono le luci ed è subito zuffa tra Orlando e Rinaldo, che si disputano l’amore di Angelica. Tutto è sfacciatamente farsesco e ad un certo punto i due contendenti si mettono a giocare a morra. Tutto è sgangherato, le spade sono di legno, le corazze di cartone, i cavalli manici di scopa …e via di seguito. Siamo nel teatro di teatro, in cui una compagnia di guitti rappresenta la storia di Orlando e dei paladini di Carlo Magno… Ma intanto ecco che entra un’ indolente e annoiata Angelica, – affidata a un vecchio duca e promessa da re Carlo a chi dei due rivali si mostrerà più prode nella difesa di Parigi,- che scappa, si dà alla fuga e non farà altro che scappare, trovando alla fine – lontano da quel “rimbambito” di Carlo Magno e dai suoi paladini fin troppo rispettosi – l’amore nell’umile fante saraceno Medoro, da lei raccolto ferito e morente e salvato dalle sue affettuose cure.

Quando Orlando lo saprà, dal pastore che accolse i due innamorati, impazzirà di dolore e furente e selvaggio porterà terrori e lutti per la Francia, Spagna e Africa, fino a che Astolfo, altro paladino di Carlo, non gli riporterà, dalla luna, il senno racchiuso in una fiala. Questa, per sommi capi, la storia che propone il “poeta dell’armonia”, che rifiuta i toni estremi o che non li prolunga oltre certi limiti, il poeta del “misurato sorriso”, ed è in fondo la stessa storia che viene riproposta, in maniera però spesso risibile e con un finale …infedele. Per darvi un’idea dello spettacolo teatrale, figuratevi una specie di taverna-stalla – magazzino dell’usato, con una lanterna magica che proietta immagini talora animate e distorta. E su questo palcoscenico quattro attori, di cui uno è scenografo e fa il caratterista, si moltiplicano per dieci, o per venti, sempre a forza di magie e…fantasie. Ma il teatro, si sa, è tutta una magia. Ed ecco un Federico Della Ducata (molto maturato) che fa un Rinaldo pimpante e fortemente autoironico, e poi la marionetta del fante Medoro, ma anche il pastore ciociaro (facendo il verso al primo Manfredi) che narra del suo amore per la bella Angelica ad un esterrefatto Orlando; e poi ancora un Astolfo bolognese che atterra sulla luna con tuta spaziale alla ricerca di bottiglie d’acqua minerale, un moviolista delle tenzoni medievali, e il “fine dicitore” colla voce nasale, alla Gassman, delle ottave d’oro, ma fa il verso anche a sé stesso, Della Ducata, dimostrando grande duttilità e una buona dose istrionica, grazie alla quale riesce a creare un feeling con il pubblico, momenti di complicità che sono poi, come dicevamo, la magia e il segreto del teatro.

Jean Auguste Dominique Ingres - Roger Delivering Angelica

Jean Auguste Dominique Ingres: Ruggiero cavalcando l'ippogrifo, salva Angelica dal mostro marino

E poi c’è Antonio Calò, un attore per vocazione (e dannazione), per il quale il teatro è la vera vita, mentre il resto è prigionia e catene. Per lui recitare non è solo recitare, ma è liberarsi dalle catene, uscire di prigione, è essere altri, lasciarsi invadere, indemoniare, possedere da una realtà “autre”, imprevedibile e irrazionale. Ma recitare è anche guardare in sé stessi mentre si finge un altro per scaricare nello spettatore le proprie tensioni, gli umori atrabiliari e le ossessioni della vita e della società di un Argan,o la gelosia ossessiva e il senso del proprio ridicolo in un Orgone, come ha dichiarato Gabriele Lavia; e tutto ciò è curiosamente (quando si entra in Moliere non è mai senza conseguenze) proiettato nell’Orlando di Calo’, che non ha la duttilità, né l’agilità di Della Ducata, ma una propria maschera grottesca, vizio e insieme sofferenza teatrale che si porta dentro di se ed esprime al meglio in quella terra di nessuno che è l’intervallo tra il personaggio e l’attore, la pausa in cui si guarda se stessi recitare in quel luogo di fantasmi, in quel luogo artificiale, assolutamente falso, e pur l’unico vero e reale in cui si consuma la recita. Antonio è passionale, impetuoso, entusiasta, ingenuo, furente, infantile, esibizionista e spavaldo, sempre uguale a se stesso, ma fermo, tetragono, indefettibile, eroico, nel suo ruolo di “una vita da mediano”.

Manuela Marrella è un’Angelica sopra le righe, ovviamente, che recita in falsetto ma con levità, talora farfalla colorata che si muove deliziosamente e traccia le sue perfette traiettorie geometriche per il suo disegno finale, ma più spesso si fa ape che punge con l’allusione, il motto e il pettegolezzo, che è un’arte sottile che s’avvicina molto alla verità (i pettegolezzi dicono sempre la verità sulle cose che accadono, ma le cose non accadono mai come i pettegolezzi ce le raccontano), una Mirandolina travestita da Angelica la Bella, che si comporta da donna – ossia da attrice più attrice delle attrici – con tutti i suoi trucchi, malie e sortilegi, ottenendo sempre quel che vuole (non Orlando, né Rinaldo – sedotti e abbandonati – ma l’amore che è incarnato dall’umile, ma bellissimo Medoro) Ovviamente la Marrella ci mette – come accennavo – una larga dose di autoironica classica e leggerezza facendo il verso anche a sé stessa attrice.

Insomma, teatro allo stato puro, in cui forse Ariosto c’entra poco o nulla, ma tradire i classici è da sempre – scrive Garboli –un’opera altamente meritoria e raccomandabile, purché lo si faccia con coraggio creativo. E a me sembra che Luigi Scorrano, il regista, lo scenografo e gli attori lo abbiano realizzato in modo egregio, coll’idea del carrozzone dei guitti che si ferma su un’ideale pubblica piazza a raccontare le imprese e gli amori e le follie di Orlando, per come loro stessi potevano interpretare e concepire. Non è venuto sicuramente meno lo spazio per la creatività e la fantasia, anche se gli automatismi non erano sempre perfetti. Siamo nel teatro povero (aiutatevi con la fantasia, dirà un attore al pubblico), che sembra farsi da solo, con l’aiuto e la collaborazione degli stessi spettatori, siamo nel teatro in cui tutto è uguale e tutto è diverso, in cui si assiste ad una specie di progressivo sventramento del testo classico, che si fa f arsa di qua’ e denuncia di là.

Dall’inizio un po’ freddino e sincopato al parapiglia finale, quello che si apprezza non è la finzione, ma il gesto; non la trovata scenica (la nudita’ teatrale non so quanto sia voluta), ma il gioco; non tanto il ricordo della commedia dell’arte, quanto una rinascita del teatro farsesco classico, in lingua italiana (merce rara), che si guarda allo specchio e ride di sé stesso; non la metafora dell’ossessione della gelosia, dell’amore tradito, della pazzia, come da copione, ma le perfette simmetrie involontarie, le situazioni risucchiate dal ritmo, il recupero di acrobazie da commedia dell’arte, le leggi esatte di una terra di nessuno che vengono fabbricate sul momento, non l’ apparizioni di personaggi convenzionali o di dialoghi che pur conservano il tessuto, il sostrato letterario, ma il meccanismo sperimentato che si articola docile come un mosaico ad incastro con tempi buoni e talora ottimi.

Insomma, l’intento è quello di far cultura e insieme divertire, cose non facili, un varietà che si nutre di diversi registri, un impianto che cerca la perfezione del ritmo, la distribuzione dei contrattempi, il funambolico automatismo che si sostiene alla trama, che sorregge gli equilibrismi sottilissimi della fragile messinscena in cui basta un nulla e tutto fa flop, nel susseguirsi di situazione comiche e grottesche, da teatro flipper

Tutto ciò è frutto della regia di Giuseppe Miggiano, in cui vi sono le caratteristiche peculiari della sua personalità artistica : senso spiccato della creatività, magia, geometria, ordine e insieme trasgressione, debolezza, ma anche dolcezza, autoironia, ma anche amara denuncia di quanto si vada perdendo nel tempo nostro dei Bush e dei Saddam, dei genocidi e dei milioni di bambini che muoiono di fame; e di tutto ciò che attraverso il teatro si vorrebbe recuperare, con gioia, con spirito leggero, in un trionfo scintillante e scoppiettanti di luci, scherzi e risate, da tenersi per mano, tutti insieme, attori e spettatori, per celebrare la bellezza dell’arte, che è fantasia, magia, poesia.


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