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Giuseppe Pitrè: Il “Voscenza” ed altri titoli nel Galateo popolare

Creato il 26 gennaio 2012 da Postscriptum

Giuseppe Pitrè: Il “Voscenza” ed altri titoli nel Galateo popolare

Per quanto i termini demopsicologia e psicostoria si rimandino vicendevolmente, tra le mie idee, più per una questione di assonanze che per motivi fattuali, ciò non significa che manchi alcun legame ideale. Anzi, sono propenso nel credere che trait d’union sia proprio quel nesso relazionale basato sui fatti, che ho posto in dubbio poc’anzi, senz’altro facendone nascere un equivoco. Difatti, la psicostoria di Hari Seldon – branca della psicologia – è in sintesi una scienza basata sullo studio dei comportamenti e la vita dei personaggi storici passati: “La psicostoriografia è la quintessenza della sociologia; è la scienza del comportamento umano ridotto ad equazioni matematiche.”

 

Il lettore avveduto si renderà conto da solo di quanto la definizione appena riportata sia simile a quella che Giuseppe Pitrè adottava per specificare l’ambito del c.d. Folclore (o sarebbe più esatto dire folklore): “Scienza che studia la psicologia di un popolo attraverso i suoi usi e le sue tradizioni.”

Trascrivo e riporto dall’ormai indispensabile wikipedia: “L’intellettuale che ha dato poi origine allo studio sistematico, su base scientifica, del folclore italiano, è il medico palermitano Giuseppe Pitrè (1841-1916) che, dopo aver dato alle stampe la «Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane», ha realizzato un’opera editoriale insuperabile (per ricchezza di informazioni), la «Bibliografia delle tradizioni popolari italiane» nel 1894 e la «Rivista Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» pubblicata ininterrottamente dal 1882 al 1909. Per primo Pitrè ottenne nel 1911 a Palermo una cattedra universitaria per lo studio delle tradizioni popolari, sotto il nome di demopsicologia.

Lo stacco di tempo che separa i due termini (Pitrè pensò alla sua demopsicologia tra il 1870 – o prima ancora – ed il 1913 circa. Per leggere psicostoria in una specifica relazione di Seldon si dovrà aspettare il 1951), potrebbe anche essere motivo di orgoglio regionalistico, ma ciò sarebbe solamente un futile tralasciare l’importanza di quelle idee platoniche circostanti il nostro agire quotidiano.

Quello che voglio dire è che se due studiosi – senz’altro scevri da ogni tipo di contatto, sociale, culturale, visivo, di informazione – pensano la stessa cosa con indipendenza intellettuale, probabilmente, dall’iperuranio, in qualche modo giunge questo riflesso pratico del modo di gestire divino, cui noi esseri limitati diamo nome e concreta azione di psicostoria o demopsicologia. Pur, ovviamente, connotando ambedue le voci, di accezioni diverse, nella pratica attuabilità.

È interessante, in merito, andare ad esaminare uno degli scritti di Pitrè: Il “Voscenza” ed altri titoli nel Galateo popolare. Due paginette circa di word (che riporto in fondo a questo scritto) in cui è racchiusa e condensata idealmente la storia siciliana, almeno quella che va dal ‘600 ad oggi, se non si vuol ricomprendere un arco di tempo ancor maggiore. Sia ben chiaro, utile approfondimento non per fini estetici o di solo gusto antiquario, ma ricerca abile ad avviare uno studio sul futuro della società, siciliana in particolare. Non è un capriccio collegare le cose, al modo di rivolgersi l’un l’altro dei personaggi popolanti la scena isolana odierna.

Pitrè inizia la sua disamina citando la prima fonte (non la primaria), tale Dottor Raffaele Solarino (sindaco di Ragusa inferiore dal 1896) e la sua “Inchiesta agricola sulle due Raguse” del 1878:

Nelle grandi città si è andato qualche passo avanti: ed al Lei ed all’adesso ed al mica, si è aggiunto il “caro lei”, col quale il più umile venditore ambulante di frutta, di finocchi, di patate, di ferravecchi si mette screanzatamente a tuppertù con chi vuol comprare. Tuttavia “fino a quest’ora, in Sicilia, ne’ paesi dove erano case di antica nobiltà, il volgo dà sempre e a tutto spiano del “voscenza” (sincopato da vostra eccellenza) alle persone avute per nobili, ricche e salite in nobiltà o per compri onori.

Il Solarino critica i “tempi moderni” e la presunzione di quei giovani d’allora che non volevano più dar del “voi” ai loro naturali superiori.

I nobili, dal canto loro, “s’adontano assai, quando un contadino, un popolano o un artiere qualunque, o per inconsideratezza, o per ignoranza ed anche onta dia ad essi del vossia (vostra signoria), o del lei, che oramai, dal 1860 in qua, si usa da’ continentali…

Qui il motivo del suo astio diviene cosa chiara. Il Solarino, ovviamente figlio del suo tempo, incentra i motivi dell’attacco sulla degenerazione degli usi, prendendo di mira quell’anno/discrimen che è il 1860 (citato in maniera ironica) e l’ Unità d’Italia conseguente.

Tutti gli effetti benefici sperati in conseguenza di quel confusionario periodo risorgimentale, si sono ridimensionati alla luce gattopardiana di una presunta immobilità sociale. In effetti i proprietari terrieri, i nobili, e i sedicenti tale, sono rimasti a cavallo del glorioso destriero siculo, pur essendo mutati a monte i proprietari delle stalle.

Eppure qualcosa di nuovo ha portato, la cosiddetta piemontesizzazione del territorio meridionale: il “lei”. Un semplice orpello nel contesto pressoché uguale, ma che in qualche modo si avvia a scardinare il sistema baronale così come era stato conosciuto sino a quel momento. Solarino intuisce, ma non in toto. I baroni si faranno dare anche del “tu”, nel proseguir dei tempi, pur di mantenere le loro prerogative in quel contesto che oggi forse possiamo dire sostanzialmente mutato, in degenerazione.

Non si tratterà più di baroni veri e propri, ci s’intenda, anzi i nobili perderanno sempre più di potere e importanza assieme al loro “voi”, malgrado il revivalismo fascista di un ventennio fatuo e imbroglione.

Solarino ha certamente paura di questa rivoluzione del “lei”, tanto più che la sua Inchiesta viene pubblicata nel 1878. Sono trascorsi diciotto anni, da quel 1860, a decretare una incuranza dei nuovi regnanti verso le prerogative ed il galateo ammantante il vecchio ceto nobiliare di Trinacria. Come dicevo prima, solo i più furbi prenderanno al balzo la palla del dimenticatoio lanciata dai Savoia. Occasione unica per far meglio e con più libertà i loro soliti interessi. Gli altri, quelli più attaccati all’etichetta, soccomberanno anche loro, come quel voscenza tanto preteso.

C’è di più, il Solarino, da buon cattolico, certamente in principio subisce il non expedit pontificio e quindi rigetta nettamente un Governo capace di emanare norme e leggi in grado di intaccare l’asse ecclesiastico. Il suo impegno attivo, come sindaco, anticipa solo il clima di distensione che mano a mano verrà ad instaurarsi. E poi, in fondo, le cose si andavano stabilizzando: proprio da quel 1878 era cominciato un periodo favorevole ai conservatorismi, Umberto I sembrava degno di fiducia e i Savoia non erano poi così male. Peccato solo per quel “lei”…

Fortunatamente in Sicilia, le cose andavano ancora diversamente, rispetto tutto il nuovo Regno. Si può dire che l’atteggiamento fosse precisamente sine nobilitas, e non del tutto a torto in fondo, l’Elite isolana si riteneva culturalmente più elevata di quei continentali ignoranti:

Cosiffatti nobili, pertanto, ricevono il voscenza non solo da tutti i loro dipendenti; ma ancora dai propri figli, i quali, pur ricevendolo da tutti i servitori e dall’umile gente di campagna e di città, debbono darlo essi pure agli zii. Per questa ragione il voscenza, in coteste famiglie più o meno nobili, è mastro e donno: lo senti dalla bocca del servo e da quella del figlio del signore: tra padre ee figlio, tra zio e nipote, né Lei, né Ella, né (peggio di peggio) il tu: sarebbe troppa confidenza, una  vera insubordinazione. È naturale: è adesso il segno della nobiltà, il solo titolo nobiliare che non paga all’Erario la tassa per il riconoscimento e il trasferimento del detto titolo…

La bocca era ancora amara per l’elevata imposizione fiscale (riferimento all’Erario) di questo regno savoiardo (e non si tratta di inzuppar niente nel tazzone di latte). Ma sono accuse di circostanza, quasi daintercalare, tipiche espressioni del dialogare tra nobili, tanto per dire insomma. Il tutto è comunque infondato, i titoli si pagavano già da parecchio tempo, almeno da quel ‘600 della grande svendita.

Ma concentrando l’attenzione sul “Vostra Eccellenza”, contratto in Voscenza, mi sembra opportuno rilevare quanto sia sarcasticamente distaccato il modo di presentare le cose da parte del Pitrè, un modo di raccontare che ricorda senza dubbio il modus operandi sciasciano. E sarebbe interessante un approfondimento, per mezzo delle tecniche del grande scrittore di Racalmuto, volto a capire meglio la differenza sussistente tra Vossia e Voscenza. Cosa comunque fatta balenare qua e là – nel suo essere quasi asettico – dal Pitrè. Sarebbe ciò utile per capire quanto delle radici mafiose innervanti il tessuto siciliano, sono rispecchiate in questi modi di rivolgersi.

Pitrè è uomo moderno, ma non lo è per natura, la sua ascendenza è umile, per cui gli viene semplice far del sarcasmo su queste antiquità nobiliari sicule. Lo fa con Solarino e senza dubbio può permetterselo con la successiva fonte (Navanteri). Ma non si può pretendere una mentalità progressista pur dal modicano Serafino Amabile Guastella, menzionato nel prosieguo del testo. Eppure è sorprendente quanto il modo di scrivere dell’illustre modicano, prefiguri quella stessa scienza di cui è portabandiera Pitrè stesso:

Quando il contadino non vive del lavoro della giornata, ma possiede un paio di buoi, o una o due vacche, o un palmuccio di terra, o prende in fitto un piccolissimo terreno, allora non è chiamato più con il suo semplicissimo nome di battesimo, né con il zù e il zì, ma con il gran titolo di massaru o di massà, che per lui è un titolo ambitissimo: il vero titolo nobiliare. È massaio, in Sicilia, tanto chi ha una vacca e una strisciolina di terra, quanto chi ha greggi molte e molte campagne e molte ricchezze. La moglie del massaro, grande o piccolo, porta il titolo gnà, o di gnura, il quale non è altro che il nome di signora, sincopato. In città, troviamo una classe più elevata; quella delle maestranze. Chi ha lavoro manuale porta il titolo di mastru; chi esercita  il piccolo commercio, od apre anche un salone da toletta, un negoziuccio quanlunque, prende il titolo di don. I fabbricanti, i calzolai, i falegnami e  i muratori non hanno il don; ma se nel loro mestiere, si fanno ricchi, o lavorano bene, o prendono grossi appalti, son chiamati da tutti con il don: anzi essi vogliono che loro si parli in tal guisa ed il nome di mastru sonerebbe per loro disprezzo òd offesa. Alla moglie del mastru si dà del gnà e del gnura; a quella degli altri il titolo di donna.

Serafino Amabile Guastella non dà giudizi, se non nel minimizzare le proprietà (palmuccio di terra) o leattività (negoziuccio qualunque). Ciò ovviamente implica la sua valutazione negativa nel pretendere alcun titolo da parte di coloro i quali cercano di arrogare le suddette qualità.

Passando dal voscenza al vossia, per arrivare al don e all’infimo “zu”, mi sembra degno di attenzione il fatto che l’utilizzo di queste più basse qualificazioni siano, come dice lo stesso Pitrè: “qualificazione quasi di riguardo non tanto alla persona alla quale si dà, quanto alla persona che la dà, e che vuol conservare certe forme e distanze.”.

Appreso che siamo ormai da tempo entrati nell’era del “tu”, malgrado qualche preteso “lei” (come per ivoscenza di qualche tempo fa), resta da capire, con metodo psicostorico o demopsicologico che si voglia dire, quali saranno i prossimi passi della società. Se il “lei” è destinato a scomparire – e i segni di ciò si trovano nel quotidiano vivere, come nel semplice dialogare dei talk show – a cosa si accompagnerà tale accadimento? Forse Pitrè agognava ad un futuro appiattimento sociale, che in fondo si raffigurava e prefigurava in quel “compagno” ormai in disuso sui banchi a sinistra. Siamo tutti uguali, in che senso? E malgrado quali titoli e onorificenze, se ancora oggi ve ne sono? Il titolo dottorale resterà un discrimenvalido in un prossimo futuro privo presuntivamente di ampli spazi lavorativi? L’attuale classe dirigenziale siciliana ha compreso i mutamenti in atto? Ci sono connessioni tra la Sicila baronale dei voscenza e le spinte che hanno dato vita al movimento dei forconi o a quello più generale degli Indignados? Ci sono ancora dei ritardi da colmare, causati da quello snobbismo interessato che celava in realtà interessi economici ben più pesanti di quelli circostanti la perdita di un “voi”?
Sono domande cui non sono in grado di rispondere con sicurezza. Naturalmente qualcuno le domandese le è già poste da parecchio – e sono convinto che le risposte ci siano già, nel piano di organizzazione generale dell’umanità, sciommiottamento di divinità ben più reale di quanto si possa immaginare, malgrado i più recenti e apparentemente imprevisti eventi economico-politici sembrino dimostrare il contrario. Non è dato sapere con certezza! Ci viene in soccorso un “libero arbitrio” dalle caratteristiche del tutto umanoidi ed il buon vecchio Caso (in ogni caso collega del Fato).

Le domande, ufficialmente, restano lasciate lì sul vetrino, sotto la fila di lenti degli scienziati della sociologia e della politica.

È da sapersi pure che la nobiltà, in Sicilia, vien significata e determinata per il numero di cappelli (cappeddi) che sono stati in questa o in quella famiglia, e cioè, quanti sono stati i membri, ovvero gli avi, che di quella famiglia hanno portato il cappello, segno proprio del nobile o del signore, in opposizione della berretta che portano sempre i contadini, i massai e gli artieri (il cappello è portato da tutti, salvo sempre da’i villani, quindi dall’umile operaio al più alto signore); e però la nobiltà in tali famiglie è maggiore o minore secondo che il primo a lasciar la berretta risalga a molti o a pochi anni. Pertanto uno è nobile di tre, di quattro, di cinque, di dieci, di venti cappelli!

Quale sarà l’evoluzione di questi ultimi accadimenti, assodato che continuano a circolare troppi “cappelli” privi di contenuto?

 

Gaetano Celestre

 

Ognuno di noi è in grado di scrutare, cercando ragioni che forse i microscopi accreditati tarderanno a dare, sia anche ufficiosamente. La ricostruzione della società parte persino dalla rilettura di documenti quali il seguente:

 

Il “Voscenza” ed altri Titoli nel Galateo Popolare (Giuseppe Pitrè)

Trentatré anni fa (1878) uno studioso del territorio di Siracusa (Solarino, l’inchiesta agricola sulle due Raguse) diceva che il servizio militare ha vantaggiato i contadini sotto il rapporto della istruzione “ma nel converso li ha resi presuntuosi, saccenti e, quasi tutti, assieme al “lei” e “all’adesso” si fanno pregio di raggiungere la bestemmia piemontese e il sacrato toscano a denti serrati”.

La osservazione per le due Ragusa (prov. di Siracusa) veniva  più tardi (1893) ripetuta per Modica, dove il “pitarru”, “dopo il servizio militare, col sigaro in bocca ad un gergo lardellato di “adesso, mica” e di fioriture sgrammaticate, apprese in quartiere” fa mostra di sé (E. Spadaro, Lu Zi’Ciccu).

Nelle grandi città si è andato qualche passo avanti: ed al Lei ed all’adesso ed al mica, si è aggiunto il “caro lei”, col quale il più umile venditore ambulante di frutta, di finocchi, di patate, di ferravecchi si mette screanzatamente a tuppertù con chi vuol comprare.

Tuttavia “fino a quest’ora, in Sicilia, ne’ paesi dove erano case di antica nobiltà, il volgo dà sempre e a tutto spiano del “voscenza” (sincopato da vostra eccellenza) alle persone avute per nobili, ricche e salite in nobiltà o per compri onori”.

Codesti nobili o sedicenti nobili tengono ad avere il voscenza:
“s’adontano assai, quando un contadino, un popolano o un artiere qualunque, o per inconsideratezza, o per ignoranza ed anche onta dia ad essi del vossia (vostra signoria), o del lei, che oramai, dal 1860 in qua, si usa da’ continentali”,
vien dato a tutti:
a’commercianti, a’falegnami, a’sarti, ai barbieri, a’trattori, e via dicendo. Alcuni di quelli che si appellano o si hanno per nobili “portano il voscenza di casa propria”, come dice il volgo, e vuol significare che codesti signori l’hanno avuto tramandato dagli avi insieme con tutti gli altri beni e le altre virtù.
“Cosiffatti nobili, pertanto, ricevono il voscenza non solo da tutti i loro dipendenti; ma ancora dai propri figli, i quali, pur ricevendolo da tutti i servitori e dall’umile gente di campagna e di città, debbono darlo essi pure agli zii. Per questa ragione il voscenza, in coteste famiglie più o meno nobili, è mastro e donno: lo senti dalla bocca del servo e da quella del figlio del signore: tra padre ee figlio, tra zio e nipote, né Lei, né Ella, né (peggio di peggio) il tu: sarebbe troppa confidenza, una  vera insubordinazione. È naturale: è adesso il segno della nobiltà, il solo titolo nobiliare che non paga all’Erario la tassa per il riconoscimento e il trasferimento del detto titolo. È da sapersi pure che la nobiltà, in Sicilia, vien significata e determinata per il numero di cappelli (cappeddi) che sono stati in questa o in quella famiglia, e cioè, quanti sono stati i membri, ovvero gli avi, che di quella famiglia hanno portato il cappello, segno proprio del nobile o del signore, in opposizione della berretta che portano sempre i contadini, i massai e gli artieri (il cappello è portato da tutti, salvo sempre da’i villani, quindi dall’umile operaio al più alto signore); e però la nobiltà in tali famiglie è maggiore o minore secondo che il primo a lasciar la berretta risalga a molti o a pochi anni. Pertanto uno è nobile di tre, di quattro, di cinque, di dieci, di venti cappelli!” …

Da’nobili e d’nobili nuovi il voscenza con il tempo è disceso a a’civili. Civile, in alcune parti di Sicilia, è colui che ha feudi, palazzi, carrozze, servitori o una stirpe, che, per più generazioni, ha portato cappeddu.

“Civile è poi specialmente la persona del ceto medio, il professionista, l’impiegato pubblico e privato, ecc.”.

E poiché ognuno vuol sempre parere più di quel che è, per l’innata superbia che portiamo sempre con noi, ora, in Sicilia, “il così detto civile la pretende a nobile; quello della borghesia vuol esser avuto per civile, l’artiere per borghese, il contadino per massaio, il manovale per muratore. Il bello si è che il voscenza, essendo il distintivo delle persone nobili, e poscia de’ civili, via via con il tempo ha innamorato potentemente di sé molti e molti altri, che non son punto né nobili né civili, ma che hanno ricchezze poche e molto fumo (G. Navanteri, 1903).”

Dati gli abusi di titoli nobiliari che pullulano tuttodì in Sicilia, è facile spiegare non solo il voscenza, ora anche l’Eccellenza che servitori e dipendenti profondono a padroni ed a proprietari, che lo accettano un po’ impacciatamente dapprima, e lo esigono poi man mano che vi avranno fatto l’orecchio. Un viddanu rinusatu o arrinisciutu, un villan rifatto, un parvenu, che abbia avuto l’abilità o la fortuna di mettere insieme un buon capitale pensa all’acquisto di terre. Le grandi tenute, per antica tradizione, si qualificano come feudi: ed il feudo è, nel concetto popolare, una specie di baronia, anzi addirittura una baronia, con titoli e diritti derivanti da una legge…che non esiste. Primo a credersi barone è lui, il compratore e possessore della terra. Il titolo si fa a poco a poco strada: ed ecco venuto su un auto-barone. Il figliuolo è barone anche lui, e se avrà una mezza serqua di figliuoli, godrà di sentirseli chiamare baronelli; i quali, cresciuti ed ammogliati crearono quandocchesia una schiera, un esercito di baronelli…senza baronia.
E dire che la Commissione Araldica regionale siciliana lavora da trent’anni allo accertamento dei titoli dell’Isola, mentre il Governo, fiscale fino al midollo, lascia correre, come se la illegalità fosse fatto suo!

“Il borghese o il cittadino ha il don come titolo (dominus, domnus, domnu, donnu, don) e il voi come segno di distinzione; ha caro, che tu gli parli con il vossia; ma quello che ha il titolo di mastru e il voi come nota speciale, aspira al don, pur conservando il voi: per l’uno e per l’altro il vossia e il don è come il voscenza de’così detti nobili, civili e pubblici ufficiali. Il massaio, alla sua volta, ha la brama accesa di nobilitare se non sé medesimo i suoi figli: e per conseguire il don direttamente avvia il figlio ad una carriera civile o al sacerdozio. Allora appunto il sospirato don entra definitivamente nella sua famiglia; il figlio lo porterà sempre addosso, anche se dismetta l’abito talare, e lo tramanderà in perpetuo a’ suoi discendenti.”

Questo titolo, sceso dalle alte medie sfere, è giunto nelle città, all’infima classe sociale, e, strano! con particolare predilezione del sesso femminile. Se è lecito chiamare un semplice operaio don invece che maestro, è dovere chiamare donna la moglie, la congiunta di lei: donna Peppa, donna Vanna, donna Francisca, e scendendo giù giù fino alla gnura, moglie del cocchiere, alla moglie del carrettiere, del portiere, fino alla lavandaia.
E però giudichi il lettore quanta ilarità debba destare in Palermo, in Catania, in Siracusa, ecc. la rassegna che, scimmiottando le città del Continente, sogliono fare i giornali, delle signore intervenute ad una festa, ad uno spettacolo, ad una riunione, applicando a ciascuna di esse l’onorificio donna, quasi vogliano sottolineare la distinzione. Passando alla classe più umile, e particolarmente ai contadini, tu non trovi alcun titolo.

“Gli uomini e le donne che vivono del lavoro giornaliero son nominati con il loro nome di battesimo fino a che son nubili: quindi Vanni, Peppi, Ciccu, e Vanna, Peppa, Cicca. Se poi vanno a nozze o sono innanzi negli anni, allora s’innalzano al titolo di zù zì: e per ciò: zù Vanni, zì Ciccu, ovvero zì Cì, zì Peppi, o zì Pè, zà Vanna, zà Cicca.” (S. A. Guastella. L’antico carnevale nella Contea di Modica).

Questo nella Contea di Modica; ma in gran parte dell’Isola, il titolo di zù è dato allo zappatore, al villano, al facchino: e rappresenta il titolo della più bassa classe sociale. Quando si dice ad uno o di uno zù nuddu, s’intende parlare di persona di nessuna autorità, al vero zero della società. Nel Medicano le donne anche attempate son chiamate con nome vezzeggiativo sincopato e tronco: Mariù, Pippù, Cuncittù-

“Quando il contadino non vive del lavoro della giornata, ma possiede un paio di buoi, o una o due vacche, o un palmuccio di terra, o prende in fitto un piccolissimo terreno, allora non è chiamato più con il suo semplicissimo nome di battesimo, né con il zù e il zì, ma con il gran titolo di massaru o di massà, che per lui è un titolo ambitissimo: il vero titolo nobiliare. È massaio, in Sicilia, tanto chi ha una vacca e una strisciolina di terra, quanto chi ha greggi molte e molte campagne e molte ricchezze. La moglie del massaro, grande o piccolo, porta il titolo gnà, o di gnura, il quale non è altro che il nome di signora, sincopato. In città, troviamo una classe più elevata; quella delle maestranze. Chi ha lavoro manuale porta il titolo di mastru; chi esercita  il piccolo commercio, od apre anche un salone da toletta, un negoziuccio quanlunque, prende il titolo di don. I fabbricanti, i calzolai, i falegnami e  i muratori non hanno il don; ma se nel loro mestiere, si fanno ricchi, o lavorano bene, o prendono grossi appalti, son chiamati da tutti con il don: anzi essi vogliono che loro si parli in tal guisa ed il nome di mastru sonerebbe per loro disprezzo òd offesa. Alla moglie del mastru si dà del gnà e del gnura; a quella degli altri il titolo di donna.”

Ciò nella Contea di Modica, dove avviene ordinariamente che “chi dirige il discorso ad uno di costoro dà sempre del voi; se, in cambio, son essi che parlano fra di loro, allora, a vicenda, si danno del voi; ma gli altri, e i loro dipendenti e garzoncelli, dànno del voi tanto a colui ch’è mastru quanto a colui che ha il don: e dànno del vossia a quello che, nel mestiere, è più esperto, più ricco e la cui famiglia è stata sempre di operai o di commercianti”.

Nelle città il cocchiere da piazza si chiama gnuri, se padronale “su”, il barbiere ed il cuoco, specialmente delle case signorili monsù; il servitore “su”, senza alterazione del nome personale: Su Giuseppi, su Antoninu, Su Giovanni, e non già “su Peppi, su Ninu, su Vanni”, ed è qualificazione quasi di riguardo non tanto alla persona alla quale si dà, quanto alla persona che la dà, e che vuol conservare certe forme e distanze.

 


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