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Great Ocean Road

Creato il 04 gennaio 2013 da Guidoeug @EugenioGuidotti

Port Campbell, VIC, 3 gen 2013, ore 22:49, parcheggio

L’Australia è un continente piuttosto secco, arido, gretto. Le distese di verde rigoglioso rimangono confinate perlopiù al Nord, nelle zone tropicali del Queensland. Nel resto del Paese il colore predominante è il giallo fieno dell’erba secca e l’azzurro turchino del mare, quando c’è. Parrebbe una savana africana affacciata sul mar dei Caraibi, in certi punti. Spostandosi verso la costa, il giallo tende al verde pallido, quasi oliva, e muovendosi fino ad arrivare alle coste del Sud, in alcuni punti pare di essere in Sardegna. Una vegetazione del tutto simile alla macchia mediterranea si estende a perdita d’occhio. L’estate laggiù non è affatto torrida, anzi, è quasi fredda. Se Mark Twain fosse passato di lì, sarebbe stato combattuto nello scegliere quale fosse stato l’inverno più freddo della sua vita; se l’estate a San Francisco o l’estate nel Victoria. Lasciata Melbourne alle spalle, la strada si perde tra campi fulvi, in cui sollazzano oziose vacche, e distese di nulla incolto ma curato. La striscia di asfalto è abbastanza vicina al mare per essere definita una strada litoranea, ma anche sufficientemente lontana affinché il mare sia spesso celato alla vista di chi guida. Fino a Geelong è una specie di autostrada a due corsie, tanta gente di fretta e niente che catturi l’attenzione di uno sguardo sfuggito alla guida. Tutto muta, però, a Torquay. Questa piccola comunità affacciata sul grande oceano del sud, è famosa in tutto il mondo per essere il punto di inizio di una delle strade panoramiche più belle del mondo: la Great Ocean Road. Una targa commemorativa, posta in fronte al mare in un punto panoramico, dedica la strada agli eroi australiani caduti durante la Grande Guerra. 1914 – 1919, così li piange il bronzo. Se la misura della commemorazione ripaga in egual dose il sacrificio, allora quei soldati australiani devono essere passati per l’inferno, se la Great Ocean Road è stata costruita per commemorarli. Questa strada, che si snoda per circa duecentocinquanta chilometri a pochi metri dal bagnasciuga, è un lungo gomitolo di asfalto che un paziente geometra ha srotolato, cercando di farlo aderire alla linea della costa il più possibile. I tratti diritti sono assai minori dei tornanti, delle curve cieche, delle salite e delle discese. A nord il monte, la roccia, gli arbusti. A sud le spiagge, le acque cristalline dell’oceano, i bagnanti e i cavalloni schiumosi. La parete rocciosa a volte si apre, spesso a causa di una fenditura scavata da una valletta dovuta ad un torrente, un creek come lo sottolineano i cartelli. Altre volte, invece, le valli sono più grandi e nelle loro insenature si ammassano casette di legno dalle enormi vetrate affacciate sul mare. Qualche negozio ed una baracca che vende solitamente fish’n'chips trasforma questi agglomerati di uomini e spiagge in località balneari tutte ricercate e piene durante l’estate. Tutta la fretta che si respira fino a Geelong è solo un ricordo. La velocità delle auto è molto ridotta, adesso, e sembra di essere in vacanza anche se non lo si è. Ogni volta che è possibile, la strada presenta dei punti panoramici, spiazzi dove auto e turisti si danno il cambio in continuazione. Qualcuno scatta fotografie, qualcuno mangia un boccone, qualcuno si sporge oltre il parapetto a precipizio sul mare. Australiani che guardano l’Australia in uno dei suoi punti più belli. Continuando di questa lena per oltre un centinaio di chilometri si arriva in un punto particolare della costa. Qui la crosta terrestre ha avuto un innalzamento maggiore rispetto al tratto precedente. Pareti di roccia arancione alte decine di metri si gettano in un oceano che da milioni di anni tenta di eroderle, di domarle, di spianarle fino al livello delle spiagge. In alcuni punti la roccia è imbattibile, in altri le acque hanno avuto soddisfazione. Poi, continuando a guidare, succede qualcosa di strano. Il mare, sotto, sparisce, nascosto dalla parete rocciosa, ma alcune montagne di roccia spuntano dove la roccia è già finita da tempo. Li chiamano i Twelve Apostles, i dodici apostoli. Sono faraglioni che svettano da un turbinio di schiuma, frutto di quella soddisfazione che le onde si sono prese su quella roccia ormai erosa, che un giorno le collegava al resto della Terra. Non sono esattamente dodici, ma forse quando hanno scelto il nome erano più di quanti sono oggi. La spiaggia nata dalla vittoria dei moti ondosi è dello stesso colore della parete, se non fosse che il sole al tramonto rende il muro di roccia di un arancione quasi surreale. Tutto, in effetti, è surreale. Scendendo al livello del mare, ai piedi della parete, è un insieme di luci ed ombre che fanno pensare a qualcosa di eterno, di immutabile, a qualcosa che ha un sapore che si percepisce possa resistere immutato per milioni e milioni di anni. Una valle dei giganti, una storia non scritta, una lotta continua. Il sole che si specchia sul mare e si riflette sulla roccia è allo stesso tempo oscurato dall’ombra dei faraglioni, i quali proiettano la loro silhouette sulla spiaggia. Sembra di stare in uno di quei quadri in cui il paesaggio è sproporzionatamente più grande dei personaggi che lo abitano, ma la maestria del pittore supera le sue licenze. Si potrebbe stare su quella distesa di sabbia per sempre. Alcuni viaggiatori si perdono tra quelle rocce, fino a che il sole scompare e la sua luce è sostituita da quella timida della luna. Qualcuno giura che al chiaro di luna l’effetto generale sia ancora più incantato, forse troppo, forse quasi spaventoso. Altri, invece, continuano la strada verso Port Campbell, mangiano qualcosa nell’unico ristorante presente appena prima che chiuda la cucina, per poi dormire in macchina e il giorno dopo ripartire per Melbourne, consapevoli o meno che la lotta tra il mare e la terra continua, che altri apostoli sempre si susseguiranno.



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