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Guido Michelone in otto domande e mezza

Creato il 02 settembre 2011 da Fabry2010

Guido Michelone in otto domande e mezza

di Luisa Facelli

Chiedo anzitutto a Guido Michelone, docente universitario e critico musicale, curatore di varie antologie, autore di opere di saggistica, di poesia, di teatro, narratore di due romanzi da cosa è nata l’idea della raccolta dei diciassette nuovi racconti nel recente Parigi a Vercelli per le edizioni milanesi Lampi di Stampa?

Non c’è un’idea-guida vera e propria, essendo racconti scritti lungo un intero decennio, dal 2000 al 2010 grosso modo: semplicemente trovandomi a risistemare i files nel computer mi sono accorto che avevo un bel po’ di brevi racconti inediti, più il racconto lungo dell’inizio che avrebbe dovuto avere un’altra destinazione. C’era comune materiale sufficiente per un libro. Eccolo qua! Poi, di certo, esistono, sotterranee, alcune mie costanti sia fornali sia contenutistiche, ma tocca a voi critici parlarne: almeno con la mia produzione letteraria non ho voglia di fare il critico di me stesso o, come dicono quasi tutti gli scritti, i racconti si commentano da sé, quel che ho voluto dire si può leggere non fra le righe, ma riga dopo riga!

I raccontini Parigi a Vercelli (nella seconda parte) sono molto diversi tra di loro. Si può dire che vogliono perlustrare un po’ tutti i generi?

Sarebbe da presuntuoso e onnisciente (cosa che non sono ancora e non voglio essere) cimentarmi in tutti i generi. Alcuni non li conosco, altri mi interessano affatto. Direi che sono in effetti attratto da certa narrativa di genere come il thriller, il noir, la fantascienza, la diaristica, l’umorismo (ammesso che quest’ultimo sia un genere) ragion per cui, sì, in effetti, mi piace giocare con questi schemi letterari, magari talvolta per rovesciarli o scombussolarli ironicamente.

Che senso ha ancora parlare di generi? Leggendo i racconti si ha l’impressione che si tu li voglia fare reagire in un mix esplosivo e spregiudicato. Perché farli deflagrare?

Sì, ha senso parlare di generi perché l’industria culturale li propone ancora e forse in dosi ancor più massicce di prima sia in forma pura (‘la’ fantascienza, ‘il’ noir, ‘il’ giallo, eccetera) sia mescolati fra loro come il recente fantasy che è un po’ fiaba, un po’ science-fiction, un po’ epica e un po’ avventura. Io invece li mescolo in maniera diversa, usando in effetti una miscela esplosiva e spregiudicata, come dici tu. E vorrei proprio una deflagrazione letteraria, perché non mi piace e non mi sento di scrivere come fanno tutti, di perpetuare una narrativa mainstream o International Style o, per parlarci chiaro, di mero consumo come fanno gli altri sessanta milioni di scrittori esistenti oggi in Italia (tanti quanto gli abitanti dello Stivale!). Esiste in questa narrativa che scala le classifiche dei libri più venduti pigrizia, ignoranza, conformismo, imborghesimento. Da sempre odio la funzione consolatoria o coinvolgente in senso drammatico di ogni tipo d’arte. Sono per lo straniamento e l’epica brechtiana. Sono per l’avanguardia. Detesto la parola ‘emozione’ abbinata a qualsiasi modello creativo e quindi anche ricettivo o fruitivo. La letteratura, anche un breve racconto, deve avere una funzione di shock (come l’avevano anche Dante o Shakespeare), tenendo desto soprattutto il cervello e – perché no – la coscienza di classe del lettore. Forse la mia è un’utopia rivoluzionaria, ma io ci credo e perciò scrivo così e non cosà.

Cosa vuol dire per Guido Michelone, oggi, fare letteratura? In particolare cos’è oggi il racconto?

Fare letteratura per me è scuotere le coscienze, come ti dicevo poco fa. È arrabbiarsi e far arrabbiare, è usare il cervello e far usare il cervello, evitando di far passare il fatto letterario come qualcosa di naturale; io voglio tentare di far capire i meccanismi della letteratura attraverso la letteratura medesima, svelando i giochi, smontando il giocattolo, come dicono i semiologi o gli strutturalisti. Lo studio di queste sciences humaines forse a qualcosa mi è servito, in tal senso! I modi per farlo sono molti: l’aveva capito Umberto Eco oltre trent’ani fa quando, accanto ai libri di semiologia, s’è messo a pubblicare i romanzi. Lui però parte da un altro presupposto, inglobando le strutture del ‘romanzo feuilleton’ che si svolge su tempi lunghi e su trame complesse (a loro volta ultracitazioniste) ma lasciando poco spazio (o nulla, di fatto!) alla sperimentazione linguistica. È una scelta che rispetto, ma io faccio altro, anche perché non riuscirei mai a scrivere libroni così fitti e intricati come Il nome della rosa o Il pendolo di Foucault. Non ne sono capace. E non mi interessa o non ne ho voglia. Preferisco concentrarmi sui tempi brevi, che richiedono anche maggior rapidità: in questo mi sento vicino all’improvvisazione jazz, anche se i parallelismi tra jazz e letteratura per me si fermano qui. Non credo alle sinestesie. Ti rispondo alla seconda domanda, riprendendo quanto stavo sostenendo: in fondo il racconto altro non è – come scrivono nelle antologie scolastiche per neofiti – la forma breve del romanzo, con molte meno responsabilità per quanto riguarda lo sviluppo di un plot narrativo. Ma non è che il racconto sia più facile da scrivere del romanzo: richiede massima concentrazione di tutti gli elementi precipui (fondamentali per una certa idea di letteratura che può essere, senza alcuna differenza di grado, sia la mia sia quella commerciale che detesto) in poche pagine.

La preferenza deve ancora andare allo sperimentalismo narrativo e linguistico sui temi frequentati dai media, con funzioni e stilemi diversi, soprattutto la satira, la parodia, il pastiche, la contaminazione, come nel romanzo Cinquanta. Secondo Novecento del 2004?

Sì, son passati sette anni dal mio primo e unico vero romanzo e la sostanza non cambia: anche Cinquanta – più o meno come il Decameron di Boccaccio, scusa il paragone assai irriverente – era strutturato su una serie di racconti tenuti assieme da una storia che ogni tanto si fermava per dare vita a questi spot: un romanzo a finestra o a cornice con dentro tanti caroselli! I temi sono quelli che ho davanti o dietro o dentro me, anche filtrati dai mass media. Talvolta faccio pure proiezioni nel passato e nel futuro, nella Storia e nella fantascienza. E ancora una volta satira, parodia, pastiche, contaminazione, sono le armi preferite, affilatissime (almeno spero). In più ho usato anche toni e registri drammatici o tragici in un paio di racconti, che però erano congeniali a un lavoro teatrale commissionatomi. Credo insomma che ci sia ancora molto da sperimentare, sia dentro me stesso, sia attorno a noi: mi piacerebbe che anche altri seguissero questi percorsi, magari qualcuno lo fa, ma non è pubblicato o pubblicabile. Persino certi autori pulp di fine anni Novanta che allora venivano salutati come una neo-neo-avanguardia, ma che oggi hanno riletto stili molto classici (talvolta eccellenti come in Aldo Nove); qualcuno per il momento ha addirittura smesso (come Giuseppe Caliceti).

I racconti di Parigi a Vercelli sembrano recuperare l’impegno di carattere socio-politico e civile. Un tornare alla storia e non solo alla cronaca?

È assolutamente vero e il discorso riguarda sia i due racconti ‘tragici ‘di cui ti parlavo sia altri in apparenza solo comici o paradossali: ma la mia rabbia contro le brutture della società o il malcostume della politica sono talvolta un elemento che voglio trasfigurare per rendere espressionisticamente ancora più grottesco, assurdo, macabro, immorale il sistema che produce tali falsità: e spesso per condannare la realtà presente c’è bisogno di rifarsi al passato storico, perché si trovano i prodromi di tutto, dai mali del fascismo ai barbari omicidi nel teatro scespiriano.

L’ironia e anche l’autoironia che ruolo hanno nei tuoi racconti?

Moltissima, servono a demistificare a non prendersi sul serio e a trattare la vita come una commedia (che se a volta ciascuno di noi prima o poi con il tragico deve scontarsi: è il destino inevitabile di cui parlavano gli antichi scrittori greci). Servono anche a far sì che il lettore non subisca passivamente, ma diventi vigile di fronte a quello che legge, manifestando una gamma di sentimenti e reazioni la più ampia ed eterogenea possibile. C’è un sacco di autori ‘viventi’ (ma forse il problema varrebbe anche per diversi ‘morti’) che possiede un solo registro e non sa o non riesce a scostarsi da quello: per pigrizia, per opportunismo, per mancanza di cultura o di curiosità: questo non lo so, forse si tratta di un minestrone insipido con tutti questi ingredienti. Io invece preferisco usare l’ispirazione accanto alla razionalità, la ragione che piega l’istinto verso qualcosa di consapevole, che può anche far ridere o sorridere o irritare o le tre cose insieme o altro ancora. L’importante è che non si fruisca un mio libro come un Harmony o un Giallo Mondadori (benché a quest’ultimi io sia anche in parte affezionato). Ma ci sono ahimè scrittori anche molto quotati che si fanno leggere come un Harmony: però con Manzoni, Proust, Svevo, Kundera o Garcia Marquez e nemmeno con Kerouac non era così: si stava sulla pagina a meditarla, si tornava indietro.

In Parigi a Vercelli ci sono i territori reali (Vercelli, le vie, i locali, i cittadini). Sono l’Otto e mezzo di Guido Michelone uomo e intellettuale? Come i luoghi mentali del critico musicale e cinematografico?

Sì e no e ti spiego il motivo. Intanto, da studioso, ho dedicato molto poco allo studio della musica e del cinema a Vercelli; non mi piace fare lo storico locale, quando non c’è moltissima sostanza. Nonostante i proclami altisonanti degli assessori d’oggigiorno, Vercelli è una città modesta sotto il profilo della produzione artistico-culturale; tuttavia non mancano le eccezioni che sono poi quelle che faticano di più ad affermarsi in loco, perché estromesse dai politici che, nell’esaltare le glorie locali, preferiscono quasi sempre le mezze calzette. In verità ti dico che se ho fatto libri come Vercelli nel juke-box o i tre sul film Riso amaro era per tentare di essere più conosciuto in città, per cercare di diventare non dico un maitre à penser, ma anche solo un riferimento per la vita intellettuale vercellese. Non ci sono riuscito o non mi hanno voluto: questo è il problema. In fondo anche Parigi a Vercelli, soprattutto nel titolo e nel primo lungo racconto assurge un po’ al ruolo di questa piccola provocazione, benché all’editore sia subito piaciuto il titolo trovandolo curioso e interessante non in una dimensione provinciale ma in una prospettiva allargata, cosmopolita, quasi internazionale. Anch’io se fossi un milanese o un napoletano (e perché no, un parigino) mi chiederei: ma cosa c’è in questo Parigi a Vercelli? E andrei subito a comprarmelo e a leggermelo. Davvero io lo farei; e lo rifarei anche se Tizio o Caio o Sempronio pubblicassero Canicattì a New York oppure Alessandria del Piemonte ad Alessandria d’Egitto e viva dicendo. Mi chiedevi dei luoghi naturali? I luoghi che ho citato nel primo racconto sono tutti veri ma non è che li frequenti: li conosco quel tanto che basta per dire che lì fanno ottime pizzettine e non bistecche all’americana. È un operazione semiologica anche questa, ancora altra metaletteratura. Magari ci fossero punti di riferimento (come bar o caffè) per gli intellettuali vercellesi: ma non ci sono, tranne qualche indirizzo privato, dove la padrona di casa prima o poi si stufa di dover sempre preparare torte o spaghetti per tutti senza essere ricambiata. Devo ancora scriverlo il mio Otto e mezzo, mi hai dato un’ottima idea, e ti giuro che lo farò in puro stile felliniano, magari sotto forma di libro di memoria, appena sarò un po’ più vecchio.

La bizzarria nei racconti è corrosiva, ma anche più affettuosa. O è solo un’impressione?

Ma sì, lo sai che sono un buono o un buonista: non nutro rancori autentici verso nessuno. Resto deluso quando gente meno brava di me, ha più fortuna di me, ma c’est la vie. Così va il mondo, come direbbe il poeta. Sono invece sempre molto contento quando gente brava quanto me o molto più di me (e non fraintendermi: ce n’é a valanga) ha successo, fama, gratificazione. Con la bizzarria spero di corrodere il potere ma al contempo lancio anche un affettuoso saluto a personaggi, epoche, luoghi, oggetti che non ci sono più e verso cui magari inconsciamente (o no) provo tanta nostalgia.

***

Luisa Facelli, poetessa e pittrice, ha collaborato, come studiosa, con la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Torino, occupandosi in particolare di narrativa italiana otto-novecentesca. Ha curato l’edizione critica del romanzo Alpinisti ciabattoni di Achille Giovanni Cagna e di altri testi della scapigliatura piemontese.

Parigi a Vercelli è la terza a opera narrativa di Guido Michelone, in cui nella prima parte l’Autore in un lungo racconto tratta di un celebre regista parigino che soggiorna, in incognito, a Vercelli per scrivere la sceneggiatura de Il mistero delle cento birre e farne un grande film, con protagonisti un finto Maigret e un vero Boris Vian; ma nella ridente cittadina piemontese, Giovanna, studentessa romana, arriva per un réportage fotografico sulla natura e per portare un po’ di scompiglio fra i due. Nella seconda parte del libro sedici brevi racconti dove tra l’altro si susseguono e rocambolesche imprese dei Weathermen, brigate rosse americane pacifiste; la misteriosa scomparsa di una certa Francine e le relative indagini di Olmo e Asso; un Tito Androgico da science fiction; le ragazze più belle e più antipatiche sulla faccia della Terra; partigiani e fascisti, pittori e modelle, meretrici e jazzmen, alieni e cantautori, questo e molto altro ancora.



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