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Creato il 10 febbraio 2013 da Ifilms

locandina-misérables“Umanità significa identità: tutti gli uomini sono fatti della stessa argilla; nessuna differenza, almeno quaggiù, nella predestinazione; la medesima ombra prima, la medesima carne durante, la medesima cenere dopo. Ma l’ignoranza mescolata all’impasto umano lo rende nero, incurabile penetrando nell'interno dell’uomo vi diventa il male.”

La sperimentazione ha sempre attirato l’artista, irrimediabilmente curioso di evolvere in forme originali ed eccellere nel proprio campo d’azione. Lo scopo del regista Tom Hooper (Il discorso del re), autore della trasposizione cinematografica di uno dei romanzi cardine della letteratura di ogni tempo, era esattamente questo: realizzare un’opera estrema e spiazzante, estranea per sua stessa natura al mezzo cinematografico. Esperimento non esattamente riuscito.

Les Misérables (proiettato eccezionalmente al 63º Festival di Berlino), basato sull’omonimo musical scritto nel 1980 da Claude-Michel Schönberg e Alain Boublil, tratto a sua volta dalle pagine di Victor Hugo ed esploso grazie alla versione inglese - completamente revisionata - del 1985 prodotta dalla Royal Shakespeare Company e diretta da Trevor Nunn e John Caird, con testi inglesi di Herbert Kretzmer, si presenta come vera e propria sfida, raccontando la storia del galeotto redento Jean Valjean (Hugh Jackman) e della dolente umanità che lo circonda con una sceneggiatura quasi totalmente cantata. Ma l’opera filmica ha bisogno di dinamismo, di narratività; o perlomeno, nell'ambito di un musical, di coreografie e di scene corali. Le scelte stilistiche, in questo caso, vanno verso tutt’altra direzione, enfatizzando i singoli personaggi a scapito di una visione d’insieme, nonché di un contesto storico-sociale indispensabile per la loro collocazione.

La sincerità di intenti da parte di Hooper è indubbiamente apprezzabile ed evidente nell’utilizzo degli attori, impegnati nello sforzo di cantare in presa diretta e ripresi in primi e primissimi piani atti a rendere il tumulto interiore che li dilania: ma mentre la prima parte risulta grandiosa (anche scenograficamente) e coinvolgente a livello emotivo, il seguito diventa sempre più forzato, trasformandosi in un’interminabile giustapposizione di sequenze musicali. La noia dilaga con l’avanzare dei minuti: arduo tenere desta l’attenzione se gli intermezzi di dialogo sono ridotti al minimo sindacale (e resi assurdi dal doppiaggio).

A ciò va aggiunta la difficoltà degli interpreti nel calarsi in ruoli tutt’altro che semplici: il protagonista Jackman ce la mette tutta per rendere la complessità di Valjean ma cade spesso nel ridicolo involontario, soprattutto nei momenti in cui l’emotività e l’empatia con il personaggio dovrebbero raggiungere il culmine. Assolutamente improponibili Russell Crowe (l’ispettore Javert) e Eddie Redmayne (lo studente rivoluzionario Marius).

Nonostante le difficoltà derivanti dalle scelte di regia, due figure emergono prepotenti e maestose nella loro miseria: Fantine, resa meravigliosamente da una straziante e straziata Anne Hathaway, capace di colpire al cuore lo spettatore con un’apparizione di una manciata di minuti, ed Éponine (una convincente Samantha Barks), innamorata non corrisposta di Marius.

A conti fatti, la sensazione è quella di un’occasione sprecata, unita al desiderio, dopo una frastornante visione, di un po’ di sano e distensivo silenzio.

Voto: 2/4


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