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Creato il 21 ottobre 2013 da Ifilms

Locandina VertigoIntroduzione: “A matter of life and death”

 

In un saggio pubblicato nel 2012 lo storico Ben Alpers si è interrogato sulla differente collocazione, nell’immaginario di massa della cultura occidentale, di due grandi cineasti inglesi: Michael Powell ed Alfred Hitchcock. Al netto di due percorsi artistici e biografici che in diversi momenti si sono reciprocamente somigliati, e senza tentare di stilare impensabili graduatorie di merito o valore, la conclusione evidenziata dallo storico è stata che l’opera di Alfred Hitchcock, per una complessa combinazione di ragioni, rispetto a quella di Powell ha beneficiato di una diffusione di massa decisamente più vasta, arrivando a toccare strati di pubblico spesso anche molto lontani da una assidua frequentazione cinematografica. Il cinema di Alfred Hitchcock, con gli anni, ha acquisito le caratteristiche di un fenomeno unico nel suo genere: alcuni film della sua filmografia sono diventati parte talmente integrante della memoria collettiva da diventare patrimonio acquisito, o condiviso, anche per persone che mai hanno avuto la possibilità di vederli. Lo stile del maestro londinese è così diventato un marchio riconoscibile per intere generazioni, che hanno continuato ad associarlo ad un ben definito apparato di immagini, suoni, personaggi ed atmosfere. All’interno della sua ricchissima produzione sono tre i film che più di altri, nella percezione diffusa, hanno contribuito a definire il paradigma hitchcockiano per eccellenza: Psycho (1960), Gli uccelli (1963) e La donna che visse due volte. Tra questi, l’ultimo rappresenta per molti critici ed appassionati la vetta più alta e la sintesi più completa di tutto il cinema hitchcockiano. Come accade solo per i grandi capolavori, Vertigo è il frutto di una miracolosa e irripetibile coincidenza di situazioni, che nel 1958 concedevano al maestro londinese di girare il suo film più personale, nel momento di massima ispirazione artistica e con il più ampio controllo possibile su un sistema degli Studios ancora in grado di concedere grande libertà ai suoi autori.


Una storia di fantasmi


Nel suo fondamentale libro-intervista ad Alfred Hitchcock, Francois Truffaut sostiene che il romanzo di Pierre Boileau e Thomas Narcejac D’entre les morts fosse stato scritto “apposta per lui, perché ne facesse un film”. La leggenda, avallata da Truffaut,  vuole infatti che i due scrittori francesi avessero sperato in un adattamento ad opera del regista inglese già per il loro romanzo precedente, Celle qui n'était plus, poi portato al cinema con successo da Clouzot in I Diabolici (Les Diaboliques, 1955). Già in quel soggetto era centrale la figura di un non-morto, e di una presenza oscura e sfuggente che si incarnava nell’ineludibile persecuzione del senso di colpa. Era quindi destino che le penne di Boileau e Narcejac e lo sguardo di Hitchcock si incrociassero sul grande schermo, non senza passare prima attraverso la stesura di due sceneggiature e numerose fasi di correzione e riscrittura. Nella sceneggiatura definitiva di Vertigo, firmata da Samuel Taylor, confluirono molte delle ossessioni e delle fobie che avevano già percorso il cinema hitchcockiano, a cominciare dalle parafilie e dalle tensioni feticistiche su cui spesso si è concentrata l’analisi dei critici. E’ impossibile prescindere da una lettura che collochi nella giusta luce la sessuofobia latente al cinema di Alfred Hitchcock, da tanti osservatori posta in relazione con la sua formazione cattolica e puritana, contestualizzandola nelle dinamiche del film più denso di suggestioni psicanalitiche e feticistiche di tutta la sua filmografia. La disturbata relazione tra Madeleine (nome già in sé proustianamente portatore di ricordi di vite passate) e Scottie non è che la sublimazione di un atto sessuale mancato, a cui la stessa immagine della caduta, simbolicamente vicina all’idea di cedimento, abbandono e peccato, allude. Vertigo è quindi più di ogni altro film, già nel titolo, una dichiarazione di poetica patologicamente sbilanciata verso l’abisso insondabile dell’horror vacui, che nel gioco etimologico di parole vertigine/vortice trova la sua chiave di lettura più immediata ed icastica. Il vortice della pettinatura di Carlotta Valdes, compulsivamente ricercato e riprodotto da James Stewart, è lo stesso che attrae Scottie dentro la spirale ipnotica dell’allucinazione. Nella vertigine di Scottie ogni senso della distanza sembra annullarsi: alto e basso si confondono, attrazione e repulsione si combattono, acrofobia e necrofilia si mescolano, vero e falso si sovrappongono, vita e morte si specchiano. Persino l’inquadratura più studiata dal punto di vista tecnico di tutto il film, la famosa soggettiva dello sguardo verso il basso nel campanile, è frutto di una combinazione tra due movimenti opposti: uno zoom in avanti e un movimento di macchina all’indietro. Non sorprende infine che una immaginifica “storia di fantasmi” come La donna che visse due volte concentri tutta la tensione della sua risoluzione drammaturgica in corrispondenza di un incredibile buco di sceneggiatura, autentico tormento per un cineasta che della ferrea logica dei suoi script aveva fatto un punto di forza. Involontario, inconscio lapsus, in un film che di cadute è disseminato e che soltanto con una caduta poteva risolversi.

 

“An American Paris”: San Francisco, le location, i set


Già nel 1951 Alfred Hitchcock aveva visitato San Francisco durante i sopralluoghi per le riprese di Delitto per delitto (Strangers on a Train), poi girato in altri centri della California. Della città californiana dei cento colli lo aveva sempre attratto l’aura europea e l’atmosfera cosmopolita, tanto da arrivare a definirla in alcune interviste “una Parigi americana”. C’è tuttavia un altro motivo, non trascurabile, che deve aver condotto la produzione di Vertigo verso la città del Golden Gate Bridge. San Francisco è uno dei tre baricentri dell’occulto nel cosiddetto triangolo della Magia Nera, insieme a Londra e Torino. Geograficamente collocata su un luogo instabile e ad elevatissimo rischio sismico come la faglia di Sant’Andrea, San Francisco con le sue antiche librerie, i retaggi della tradizione voodoo e le tante chiese risalenti alla fondazione missionaria spagnola è da sempre un centro di riferimento per occultisti ed esperti di esoterismo. Ed è questa caratteristica a conferire a molte delle location scelte per le riprese un morboso sentore di soprannaturale. Il tema sotterraneo della necrofilia e le immagini ricorrenti dell’altezza, della caduta e dei luoghi sopraelevati costituiscono i due poli teorici intorno a cui ruota la scelta di tutte le location del film. Al primo gruppo, oltre al cimitero ispanico della Missione Dolores dove è sepolta Carlotta Valdes, sono riconducibili il negozio di fiori, il ristorante Ernie’s e il decadente McKittrick Hotel. Il turgore floreale del primo, i broccati rossi nelle pareti e i velluti del secondo, il legno scuro e la tenue illuminazione ad olio del terzo rinviano in modo subliminale agli arredi funebri e al culto dei morti. Al secondo gruppo di location, oltre al punto panoramico di Fort Point, nei pressi del Golden Gate Bridge, teatro del salvataggio più celebre di tutta la storia del cinema, appartengono il bosco di sequoie, la scogliera spazzata dalle mareggiate di Cypress Point e il campanile della Missione di San Juan Bautista, magistralmente ricostruito in studio dallo scenografo Henry Bumstead. Ognuno di questi luoghi è lo scenario in cui le opposte dinamiche di attrazione/repulsione verso la morte e verso l’abisso della caduta si sintetizzano nell’evoluzione della relazione tra Scottie e Madeleine/Judy, tanto rarefatta e dissimulata all’inizio quanto intensa e carnale nel finale. Dinamiche che nell’incubo di Scottie della caduta nella tomba di Carlotta trovano la loro inquietante e perfetta sintesi.


Il Cast

 

Per il ruolo di Madeleine/Judy quella di Kim Novak non fu una prima scelta. Per quella parte così importante Alfred Hitchcock aveva scelto Vera Miles, prima che una calcolosi della colecisti del regista e una gravidanza imprevista dell’attrice non facessero definitivamente saltare la collaborazione tra i due. E’ singolare però che della Miles nel film che 

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oggi tutti vediamo sia conservata una immagine, o forse sarebbe meglio dire una riproduzione in effige. Il ritratto, topos fondante del cinema noir da Lang (La donna del ritratto, 1944)  a Preminger (Vertigine, 1944), che Madeleine contempla rapita nella sala del museo della Legione d’Onore, fu infatti tratteggiato sulle reali sembianze della Miles durante le fasi di pre-produzione. Accadde così che il volto della Miles, venuto meno al cast del film, facesse la sua comparsa a sorpresa proprio nel ritratto di un fantasma come Carlotta Valdes, incarnato nei colori di un olio su tela. Il contributo che la Novak, con il suo prorompente e ferino sex-appeal, apportò al film fu comunque fondamentale, nonostante le insofferenze del regista nella direzione di un’attrice totalmente estranea al suo metodo di lavoro. Se nel personaggio della Novak sono riassunte molte delle caratteristiche della femme fatale, la scelta di un attore come James Stewart si collega invece al topos hitchcockiano dell’“Everyman”, dell’uomo medio (americano) in cui tutto il pubblico può facilmente immedesimarsi. Nel suo film precedente, Il Ladro (The Wrong Man, 1956), Hitchcock aveva scelto un altro grande attore dal volto comune come Henry Fonda per interpretare il ruolo kafkiano di un innocente intrappolato nelle maglie di un sistema opprimente e distorto. Al personaggio di Scottie erano necessarie altre caratteristiche, a cominciare da una carica erotica repressa dietro una maschera di imperturbabile freddezza. Come molti dei personaggi femminili del cinema hitchcockiano, Scottie è infatti un individuo prigioniero di un rapporto irrisolto e controverso con la sessualità e la sua difficoltà di relazione con il sesso opposto non è che una declinazione ribaltata della frigidità tipica di molte delle eroine hitchcockiane. Moltissima della fortuna che La donna che visse due volte ha conservato negli anni si deve, infine, a due fondamentali contributi artistici di straordinario valore: i titoli di testa di Saul Bass, ispirati al corto dadaista di Marcel Duchamp Anèmic Cinèma (1926), e la partitura musicale di Bernard Herrmann, densa di reminiscenze del Saturno di Gustav Holst e della drammaturgia wagneriana. Senza questi due fondamentali apporti Vertigo non sarebbe stato il film che oggi ancora riconosciamo come un capolavoro assoluto della settima arte, e che l’autorevole rivista Sight&Sound nel 2012 ha insignito con il prestigiosissimo titolo di Miglior Film di tutta la storia del cinema.


Eredità

 

Se la fortuna di una pellicola si misurasse in base al numero di film che la omaggiano, citano o copiano deliberatamente, La donna che visse due volte si qualificherebbe, anche in questo speciale tipo di graduatoria, tra i primissimi posti. Oltre alle incalcolabili menzioni del film in classifiche di critici e cinefili, sono decine gli omaggi tributati negli anni da cineasti di ogni latitudine al capolavoro di Alfred Hitchcock. I due registi che più di altri hanno riletto in profondità con le loro opere il cinema di Alfred Hitchcock, sebbene da due angolazioni molto diverse, sono Roman Polanski e Brian De Palma. Se in Frantic (1988) la vertigine e la città di San Francisco offrono due chiari rimandi a Vertigo, l’ossessione hitchcockiana di De Palma lo ha portato a rileggere svariate volte l’opera del suo cineasta di riferimento, e in particolare a rievocare in due dei suoi film migliori, Complesso di colpa (Obsession, 1976) e Omicidio a luci rosse (Body Double, 1984), il tema del doppio femminile e della controfigura. Altre indimenticabili rielaborazioni di questa situazione sono Mulholland Drive (2001) di David Lynch e il più recente Road to Nowhere (2010) di Monte Hellman. Un omaggio affettuoso e sentito è anche quello di Terry Gilliam, che nel suo L’esercito delle 12 scimmie (Twelve Monkeys, 1995) ambienta una scena chiave del film in un cinema che proietta proprio La donna che visse due volte. La visione della sequenza del bosco di sequoie suggerisce ai due protagonisti Brad Pitt e Madeleine Stowe un provvidenziale travestimento a tema. La stessa scena del parco con le date impresse sugli anelli di accrescimento del tronco rievocata da Gilliam, in un caleidoscopico gioco di rimandi cinefili, era stata citata da Chris Marker nel 1962 in La Jetée, magnifico cortometraggio sperimentale che da Vertigo fu ispirato e di Twelve Monkeys fu ispiratore. Tra i tributi più singolari ed originali a Vertigo che siano mai stati concepiti è poi di certo da annoverare la brillante parodia firmata Mel Brooks Alta tensione (High Anxiety, 1977), dichiarato “omaggio al maestro della suspense” costellato da citazioni di molti capolavori hitchcockiani che da Vertigo riprende il tema dell’acrofobia, gli scenari di San Francisco e il motivo grafico a spirale dei titoli di testa e delle locandine. Attraversando i decenni l’eco della vertigine hitchcockiana ha quindi continuato a farsi sentire in svariati contesti audiovisivi, anche grazie alle maestose partiture di Bernard Herrman. Una delle più recenti “apparizioni” di questa colonna sonora avviene, per esempio, durante il film di Jean Dujardin The Artist (2011). C’è stato però un momento in cui il lascito tramandatoci da Vertigo è stato fortemente in pericolo, e ha corso il rischio di essere compromesso per sempre. Accolto tiepidamente da pubblico a critica nel 1958, il film non fu il successo commerciale che la Paramount si augurava. Ritirata dalla circolazione, con gli anni la pellicola andò incontro ad un severo deterioramento cromatico e fece la sua comparsa più o meno clandestina in edizioni mutilate o alterate nell’aspect ratio. Soltanto nel 1998, grazie ad un eccellente restauro costato alla Universal più di un milione di dollari, è stato possibile ammirare Vertigo nell’ampiezza del suo formato panoramico VistaVision originale e nel sublime splendore cromatico del suo Technicolor. E’ stato così possibile consegnare definitivamente all’eternità il destino di un film immortale, incapace di morire perché destinato a possedere infiniti altri corpi e infiniti altri sguardi.

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BIBLIOGRAFIA
Alfred Hitchcock. La donna che visse due volte, Maurizio Del Ministro, LINDAU edizioni
Nel vortice della passione. «Vertigo» di Alfred Hitchcock, M. Giori e T. Subini, CUEM edizioni
Vertigo. La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock, Paolo Marocco, edizioni Le Mani
Michael Powell, Alfred Hitchcock, and Cinematic Reputation, Ben Alpers, U.S. Intellectual History Blog
Il cinema secondo Hitchcock, Francois Truffaut, Edizioni Il Saggiatore


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