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I Quaderni dell’Ussero

Da Dedalus642 @ivanomugnaini

SEROFILLIPer i tipi di Collezione Letteraria, collegata a puntoacapo Editrice, Valeria Serofilli ha curato una serie di Quaderni dedicati alle autrici e agli autori ospitati allo storico Caffè dell’Ussero di Pisa nell’ambito di una serie di incontri promossi e organizzati dall’Associazione Astrolabio da lei diretta.
Propongo qui di seguito alcuni brani del Quaderno che la Serofilli ha dedicato ai libri di cui è autrice. Ho ricevuto dalla Serofilli per il blog Dedalus assieme ad alcuni stralci del Quaderno a lei dedicato anche alcune note critiche. Pubblico alcuni testi tratti dalla raccolta “Dai tempi” con la nota critica di Marco Righetti.

Rinnovo a tutte e a tutti voi il mio auguro per un’ottima estate. IM

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Allo scopo di ridare vita all’antica tradizione dei cenacoli letterari, mi pregio di promuovere e organizzare ormai da diversi anni il Ciclo di Incontri e dibattiti nelle due sedi diverse ma complementari del Caffè Storico Letterario dell’Ussero di Pisa e il Relais dell’Ussero di Villa di Corliano, dimora storica del XV secolo della famiglia Agostini Venerosi Della Seta. I Quaderni dell’ Ussero intendono dunque costituire un progetto editoriale il cui fine è dare risalto agli autori ospitati di volta in volta nell’ambito del Calendario degli omonimi Incontri Letterari, legando insieme contributi diversi ma non per questo disparati , attenendosi alla formula dell’evento svoltosi al Caffè dell’Ussero o a Villa di Corliano. Il Quaderno propone infatti : la recensione critica al volume presentato; una scelta antologica del libro in oggetto e di altri testi editi e inediti dell’autore; un suo curricolo.
Grazie a nuove presentazioni di altri Autori di valore, la tradizione dell’Ussero sarà continuamente rinnovata, confermandosi come un punto di riferimento significativo per la cultura italiana.
Valeria Serofilli

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testi di Valeria Serofilli

DAI TEMPI – Raccolta inedita

Dai tempi
Già ti conosco / meglio, ti ho riconosciuto

Sei lo stesso / dei tempi della clava
che si ostina con la pietra focaia
che mi stringe / al riparo dagli orsi

Sei l’antico etrusco
che abbraccio sul sarcofago
il bizantino con me nel mosaico

Ti ho riconosciuto
Sei lo stesso / con me steso sul triclinio
mentre sorseggi assenzio e mi accarezzi

Sei il fontanone romano / che mi schizza
e io la vestale che
scherza con il getto

Sei lo stesso con cui danzo
il minuetto e mi difende
da chi tenta lo sgambetto

Lo stesso che adesso
mi accompagna in ascensore
mentre clicca su fb “mi piace” o “commenta”
e che su Marte mi sposerà all’istante
cercando un varco telematico al consenso

Lo stesso sei, che stringo a me
dai tempi / ad adesso.

Il Fornaio

Quando il Fornaio / impastò la mia pagnotta
vi mise sale / lievito, sesamo di giudizio / smalto rosso
di zenzero un pizzico
amore molto / vino bianco
e forse un po’ d’inchiostro

La unse quel tanto di sudore / giusto lavoro
la spezzettò in tasche di ricordo

Ne serbò briciole / per piazze di piccioni
e per piccole tese mani di ogni colore

Pezzi più grossi / cartilagine rigenerante
azione/ non azione
o per sgualcite merende sui banchi / ricreazione

Infornò il tutto, indicandone i tempi
di cottura / doratura

Lasciò detto che / quotidiana messe
pane vita fosse / per me
questa Poesia.

Lettera a mio padre
(A più sereni cieli)
Ora che più manchi/ più non manchi
e la tua memoria a quest’ora
s’intride di luce

Anche qui, tra la folla/ intossicata di vita
vocii richiami applausi
mi tieni compagnia
Più presente di quando/ al mattino
ti alzavi già stanco e soffermavi
la mente/ prima d’iniziare il giorno
Chissà com’è ora il tuo giorno
che non sia un’andata senza ritorno
un sonno privo di risveglio
Qui nell’aria una strana dolcezza
e non è certo tutto quel che resta
e mentre la calma acqua del Fiume continua a incorniciare Pisa
ho in me il tuo abbraccio/ astratto, ma non per questo meno caldo
Sei tu che più non soffri/ caro
o il ricordo di te/ a rifiorirmi dentro
senza addio?
Ora che ti so quieto/ adagiato sulla parte di me
che t’appartiene
ritorno bambina, fresca e fragile
a scrivere “padre mio, ti voglio bene”.

Ora che l’afa

Ora che l’afa
non cessa il suo morso lento/ ma vorace
ti porterei con me, a toglierti un po’ di smog
di quel catrame trasparente/ sedimento
della vita di sempre

Ti porterei alle Canarie
a ritrovare/ il volo
di quei freschi baci selvatici
Alle Sechelles, ad annegare i pensieri
di te /di me

Mentre qui/ solo l’eco delle foreste
oasi fittizie di un artificiale ferragosto

O non è forse/ il solo
restare qui/ abbracciati
mare monte lago
semplicemente noi
la nostra estate?
(Agosto 2012)

A me ti rapirà
Tra non molto/ a me
ti rapirà il sonno
e resterò a parlare col tuo fantasma
Sarà allora che potrò dirgli
tutto quel che taccio
prima del risveglio e di quel tuo “devo andare”.

Uomo nuovo
(Ab ovo)
Si rompa il guscio/ di pietra focaia e fionda
il cavernicolo di ripercussioni e invidia

Abbandonare, vorrei/ la crisalide di mattoni vecchi
e rinascere acqua di lago/senza spreco
fondamenta più solide, anche se di palafitta
e poter dire infine
”Evviva, è nato/ l’uomo senza il guscio!”.
SS.Pasqua 2013

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Note a lettura della plaquette “Dai tempi” di Valeria Serofilli
La poesia di Valeria Serofilli sgorga con il procedere di un tempo sempre uguale e diverso, è improvvisa agnizione che supera la memoria “Sei l’antico etrusco/che abbraccio sul sarcofago/il bizantino con me nel mosaico”, filiazione del proprio bisogno di nuovo consistenza, “Sei il fontanone romano / che mi schizza/e io la vestale che/scherza con il getto”, o ineludibile identità di un pensiero circolante, perché la matematica della poesia ha la proprietà di non far fuggire nulla “Lo stesso sei, che stringo a me//dai tempi / ad adesso” (Dai tempi).
E c’è la cortesia tutta naturale, sorgiva, di far lievitare il pane dei ricordi e volgerlo in elezione stringente: “Lasciò detto che / quotidiana messe// pane vita fosse / per me //questa Poesia” (Il fornaio), o il volo sperato verso un presente che tolga “un po’ di smog/ di quel catrame trasparente/ sedimento//della vita di sempre”. Parca, estroflessa la chiusa, il finire di un’attesa nella pacificazione di una resa che però ha identità impreviste : “O non è forse/ il solo// restare qui/ abbracciati// mare monte lago/ semplicemente noi/la nostra estate?” (Ora che l’afa).
Le occasioni per adottare lo sguardo altro, ‘il senso del verso’, sono le più comuni, “La sveglia”, con la sua crudele sottrazione di un tempo altrimenti disincarnato, il “Compleanno” col suo ‘discorso farfait’, il candore elegiaco per l’eternità di una cometa (“Halley”) e il gioco finale di un abbraccio da regalare alla Cometa’. Può avvenire di tutto, scrivendo poesia, anche il dilatarsi di un batter di ciglia, lo smarrimento dei collanti umani della fretta, l’essere appesi a un filo che non ha altro significato che la perdita della gravità, la leggerezza di un tempo diverso.
Percorsa la parabola, il canto si volta in senso di ineludibile distanza – come nella sognante “Aprilia Lunarossa (a una figlia probabile)” – in consapevolezza di impossibile ‘scambio di sopravvivenze’, in speranza che la poesia, in ultima analisi, non deluda, non derida. E la finestra del disinganno si allarga ancora in “Resoconto”, articolata riflessione che brancola il buio e porta la poeta a ‘tracimare coi suoi fantasmi’ indagando sul rapporto con la vita, su ‘quello che è stato o quel ch’essere poteva’ , sulla nebbia che versa “Strasogno/tra annichilimento e resoconto”. Qui l’incessante musicalità del verseggiare, le rime le paronomasie le assonanze i richiami interni concorrono ad un vero e proprio ‘crescere’ dei versi oltre il loro stesso valore semantico. Qui la poesia si dispiega, il verso si allunga e interroga se stesso come il miglior humus per veicolare il seguito di questo dialogo con il sé nascosto: una poesia, con Heidegger, come casa dell’essere.
In “Lettera a mio padre (A più sereni cieli)”, toccante omaggio al padre scomparso, le domande entrano sul foglio e ne vengono cancellate subito dopo, come se l’unico approdo consentito fosse la rinuncia a una risposta, l’accontentarsi di aver un attimo varcato l’aldilà e acceso umane luci, senza poter sapere se serviranno a illuminarlo. Allora il viaggio di questa tenera pietà filiale ritorna all’origine dialetticamente arricchito: “Ora che ti so quieto/ adagiato sulla parte di me// che t’appartiene// ritorno bambina, fresca e fragile //a scrivere “padre mio, ti voglio bene”.

Marco Righetti



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