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I quaqquaraqua’ vs. La dolce vita

Creato il 25 gennaio 2011 da Albino

Se esistono due cose per cui Italia e Giappone sono agli assoluti antipodi, quelle sono l’universita’ e le modalita’ di ingresso dei neolaureati nel mondo del lavoro. A scanso di equivoci: oggi non stiamo parlando della situazione universitaria in Italia, non stiamo parlando dei baroni, ne’ della Gelmini, ne’ del precariato cronico, ne’ di altro. Stiamo parlando della struttura teorica che governa l’universita’ nei due paesi. Stiamo parlando dell’impianto su cui si basano le due societa’; poi in un post successivo trattero’ cosa succede quando andiamo a vedere la realta’ delle cose. Ma ora cominciamo col parlare della situazione teorica.

Cominciamo dall’Italia. Come dicevamo ieri, da noi (anzi, da voi) vige la regola democratica del calcio, “il pallone e’ rotondo”. Sulla carta dovrebbe funzionare tutto in maniera meritocratica: ha successo non quello che parte socialmente avvantaggiato bensi’ il piu’ intelligente e/o quello che si impegna di piu’. Che poi in pratica il risultato non venga ottenuto perche’ siamo dei quaqquaraqua’, quello e’ un altro paio di maniche.
Ma se la si guarda dal punto di vista del concetto, le regole del gioco non sono cosi’ male (e d’altronde, non per dire, ma l’universita’ l’abbiamo inventata noi): in Italia l’uni e’ prevalentemente pubblica (secondo il principio del diritto allo studio, dell’uniformita’ dell’istruzione – un’universita’ in teoria vale l’altra, ecc.), ci si puo’ iscrivere liberamente nella maggior parte delle facolta’, a parte alcune a numero chiuso per motivi di forza maggiore. L’universita’ non e’ basata sugli anni di corso ma sugli esami: se passi l’esame vai avanti, se non lo passi resti dove sei, ed eventualmente vai fuori corso ed e’ meglio che inizi a comprarti una pomata lenitiva per i dolori anali. La teoria vuole che per laurearti devi aver concluso tutti gli esami, ovvero devi aver dimostrato ai tuoi esaminatori che hai acquisito le conoscenze necessarie a conseguire la laurea. Tipo, per esempio, se ti chiami albino e fai ingegneria, devi passare in teoria 28 esami, anche se in realta’ sono molti di piu’ perche’ devi contare scritti, orali, pratici, laboratori, etc. Se invece ti chiami Nicole Minetti e volessi laurearti in ingegneria, ti bastano 28 pompini e qualche saltellamento a torso nudo e sei a posto, per la gioia della meritocrazia.

Il Giappone invece, come dicevamo, ha l’approccio di tipo baseball, approccio che chiameremo non per nulla e con molta originalita’: “di tipo baseball“. Naturalmente siamo agli antipodi: l’universita’ e’ quasi sempre privata, e per questo una non vale l’altra. Come nelle statistiche affibbiate ai lanciatori e ai battitori, qui le universita’ hanno dei ranking, delle classifiche. Ci sono universita’ di serie A, di serie B, C, D, E, F… eccetera.
L’scrizione non e’ libera: per entrare devi passare un esame d’ammissione, che e’ tanto piu’ difficile quanto piu’ rinomata e’ la tua universita’. Per entrare in un’universita’ di serie A, dicono, devi essere un genio.
Poi, l’universita’ non va ad esami ma va ad anni accademici: dopo 3,4,5 anni (dipende dal corso) e hai finito. Punto. Vi chiederete: ma… e se ti bocciano agli esami? Bella domanda: qui gli esami sono delle formalita’… semplicemente, in pratica… uhm… ecco…. cioe’, come dire. E’ che, praticamente… cioe’… non e’ che si venga proprio “bocciati” agli esami… se capite cosa intendo.

Adesso succede che vi starete chiedendo: ok, ma se non ti bocciano agli esami, che senso ha studiare? Ecco, qui sta il punto della questione. In Giappone funziona tutto come le statistiche del baseball di cui parlavamo: loro hanno bisogno di dividere, inscatolare, descrivere la realta’ con dei numeri, basarsi su fatti e non su pugnette come noi. Quindi, cosa succede: succede che se sei entrato nell’universita’ di serie A secondo loro tu hai gia’ dimostrato di essere intelligente. Quindi non hai bisogno di dimostrare altro! Logico, no?
A questo punto, una volta passati i tuoi tre o quattro anni di uni, il giappino e la giappina medi fanno un po’ come i nostri neolaureati: si infilano un vestito elegante e vanno a fare i job fair, gli incontri per reclutare neolaureati. Solo, la differenza e’ che da noi in teoria un ingegnere e’ un ingegnere sia che sia venuto fuori dal Politecnico di Milano che dall’universita’ di Udine, per dire – al limite certe universita’ sono piu’ famose di altre, e questo puo’ dare un minimo di vantaggio, ma lo sbarbato fresco di laurea viene in genere valutato dal suo voto finale, dal tipo di esami che ha fatto, dall’argomento della sua tesi, e soprattutto dal colloquio di lavoro.
In Giappone accade invece che le universita’ sono divise in queste classifiche, per cui se esci dall’universita’ di serie A magari ti attendono, per dire: Sony, Mitsubishi, Hitachi, ecc. Se esci dall’universita’ di serie B magari ti attendono Sharp, Panasonic, Canon, ecc. E via dicendo, fino a quelli di serie F o G che possono permettersi magari solo la piccola o media impresa, nella quale saranno pagati di meno e di regola dovranno lavorare di piu’ per espiare il fatto di aver fatto un’universita’ di merda. La vita da quel momento sara’ segnata per tutti, sia per quelli di serie A i quali, a meno che non facciano cazzate, faranno carriera molto velocemente, sia per quelli di serie F, che dovranno sudarsele tutte da li’ in poi. Devi impazzire, burba.

Ora, che insegnamento traiamo dal modello giapponese? Il succo e’ che qui la gente si gioca la vita all’uscita delle superiori, durante quei terribili test d’ingresso che, ve lo giuro, vorrei provare a fare per capire quanto siano difficili, in realta’ – tutti ne parlano come di una cosa disumana, ma non si e’ mai capito fino a quanto lo siano, e soprattutto viene da chiedersi a che minchia serva studiare PRIMA di entrare all’universita’ e poi una volta dentro non fare piu’ una sega. Misteri della fede. Comunque la cosa da ridere e’ che una volta che uno si e’ iscritto non puo’ piu’ cambiare (un’altra delle assurde costrizioni giapponesi, le vedremo piu’ in dettaglio quando parleremo del mondo del lavoro, nda.), si laurea li’ nel tempo stabilito, frequenta le lezioni ma di regola non studia un cazzo e imparara anche meno, e poi una volta finita questa gigantesca farsa ha un ventaglio di aziende cui si puo’ sperare di puntare. Se non si e’ capito, siamo a un mix impazzito tra il modello universitario americano e il sistema delle caste indiane.

Vi chiederete: dov’e’ la fregatura? Com’e’ che una nazione (noi) sforna dei giovani brillanti con una cultura profonda e completa, mentre un’altra nazione sforna delle capre, eppure la seconda funziona piu’ o meno bene, mentre la prima arranca vistosamente? Com’e’ che noi italiani all’universita’ abbiamo dovuto farci un mazzo cosi’ (quelli delle materie non umanistiche, per lo meno) per poi finire con una laurea in astrofisica a lavorare in seminero o in semiprecariato nell’aziendina a conduzione familiare facendo il tuttofare all’ufficio amministrativo, mentre questi qui fanno la bella vita per quasi un lustro, grattandosi bellamente il ciccio o la topa (a seconda della disponibilita’ di ognuno – …ah, la topa giappa! … scusate, stavo andando fuori tema…)…
…Dicevo, com’e’ che questi qui fanno la bella vita e poi escono dall’universita’ che non sanno neanche fare lo spelling della parola IGNORANCE e invece finiscono a lavorare per multinazionali gigantesche, o hanno altre occasioni che molti di noi darebbero il culo per avere?

Rifletteteci, beveteci una camomilla alla mia salute, dormiteci sopra, e ne riparliamo nella prossima puntata.

(foto sotto: le compagne di universita’ che hai sempre voluto avere, ma che non hai mai osato chiedere)

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