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“Il bordo vertiginoso delle cose” di Gianrico Carofiglio: passato e presente per capire noi stessi

Creato il 18 ottobre 2015 da Alessiamocci

Rimanere in bilico sull’orlo dell’abisso è uno stato d’animo che tormenta l’essere umano da sempre, in una continua vertigine che taglia il fiato. Perché un momento prima se in al sicuro sulla terraferma, un attimo dopo senti l’oblio del vuoto che ti investe.

“Il bordo vertiginoso delle cose” (Rizzoli, 2013) di Gianrico Carofiglio è proprio la storia di un uomo diviso in questo limbo, continuamente in bilico tra un presente macchiato dalla menzogna e un passato da ricordare. Di certo c’è solo il nome: Enrico Vallesi, scrittore fallito alla continua ricerca di un qualcosa che gli sfugge.

Tutto accade all’improvviso, come quando il terreno sotto i piedi si sgretola e ti ritrovi appeso al vuoto: basta un articolo sul giornale, un nome che conosci bene e i ricordi della propria giovinezza riaffiorano in superficie, da un angolo in cui pensavi di averli dimenticati.

Ecco quindi che in un attimo sei sul treno che ti riporta verso casa, o almeno quella che una volta lo era, nella suggestiva Bari, divisa anch’essa dagli spettri della parte Vecchia e lo sfarzo degli abitanti della periferia d’alto borgo. E qui inizia un altro viaggio, a ritroso questa volta, parallelo alla riscoperta di sé stessi.

I flashback di Enrico, infatti, sono numerosi, tutti incentrati sugli anni trascorsi al liceo classico. Non era un alunno straordinario, ma i veri maestri di quel periodo furono essenzialmente due: la giovane e affascinante Celeste, supplente di filosofia di cui il giovane se innamorò; e il burbero Salvatore, compagno di classe e militante estremista di sinistra.

Gli anni sono quelli ’70-’80, caldi politicamente e mitici per i ragazzi che li vissero. Ma il protagonista non era di quelli che vissero appieno quei decenni: viveva chiuso in camera, aveva un’unica amica, Stefania, e nutriva il sogno di diventare qualcuno di importante attraverso l’amore per la lettura e scrittura.

Nonostante l’apparente pacatezza, però, Enrico nascondeva un segreto, un filo che lo univa indelebilmente a Salvatore e che lo aveva trascinato fuori dall’universo di finzione letteraria in cui si era sempre nascosto. Fino a quando tutto ciò diverrà per lui un peso troppo difficile da reggere, da cui solo il destino potrà liberarlo. Al costo di perdere una parte nuova di sé.

Il romanzo di Carofiglio scorre tra le pieghe della memoria, in un costruire/ricostruire continuo che lentamente smonta la finzione che il protagonista si è fabbricato addosso negli anni, tanto da dover fare i conti con sé stesso per capire chi è realmente. Un obiettivo che impegna due diverse forme di narrazione: il monogolo interiore in terza persona nel presente, più composto grammaticalmente del flusso di coscienza di Joyce ma altrettanto profondo, e il flashback in prima persona per il passato.

Due scelte stilistiche che fanno capire l’animo di Enrico, nei cui tratti si può notare una certa somiglianza autobiografica con lo stesso autore: il passato è ciò che gli appartiene di più, essendo privo delle costruzioni arrivare poi per cambiare il presente, avvolto da una finzione dietro cui nascondere una carriera fallita, ben lontana dai sogni di adolescente.

Si ritrova così catapultato in una Bari che vive di vita propria, nelle sue strade e lungomare tanto familiari un tempo quanto sconosciuti oggi, sempre sul bordo di un precipizio (reale e metaforico) in cui Enrico non si decide a saltare. E i rumori che giungono a li inebriano, ubriacano, rapiscono sia il protagonista che il lettore, anch’esso posto di fronte per osmosi alle domanda sulla propria vita.

Carofiglio non muove i personaggi come burattini, ma li lascia alla deriva nel mare dell’esistenza. Nemmeno loro sanno se ha senso remare per salvarsi, ma non posso tirarsi indietro al confronto con le proprie speranze giovanili. Un ricordo che a spesso male, ma necessario per capire chi siamo diventati, affrontando gli spettri come Ulisse affrontò le sirene.

Written by Timothy Dissegna


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