Magazine Lavoro

Il capitale umano

Creato il 09 aprile 2014 da Lundici @lundici_it
job

Si sente parlare ogni giorno del tema “lavoro”. Il lavoro che non c’è. Il non-lavoro. Si sente parlare di sussidi e redditi di cittadinanza.

Il lavoro che non c’è resta uno dei temi principali della nostra attualità. In un momento di forte crisi economica e sociale la mancanza di lavoro diviene fonte di drammi personali e famigliari. Si tratta di una vera e propria emergenza sociale.

La situazione assume toni ancor più catastrofici se si allarga lo sguardo su chi un lavoro ce l’ha ma ha caratteristiche precarie. Tutte quelle tipologie contrattuali, che con grande capacità e fantasia, si sono moltiplicate, ampliate e sono mutate negli anni. Formule apparentemente “magiche” che avrebbero dovuto creare nuove opportunità.

La flessibilità che avrebbe dovuto esser fonte di nuove prospettive ha degenerato in realtà profondamente instabili, rendendo la precarietà una costante della vita di tanti, coinvolti sia direttamente che indirettamente. Molti pensano, ancora oggi, che non si tratti di un male in sé, e che a renderla tale sia l’emotività personale del lavoratore che tende a non considerare le opportunità fornite da certe forme contrattuali atipiche.

Il vocabolo “precario” deriva etimologicamente da prece (preghiera) e significa ottenuto per preghiera, non per diritto.

costituzione
Si tratta di un paradosso, considerando che l’articolo 1 della Costituzione Italiana recita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro…”. Il lavoro è, quindi, un valore costituzionale. La Costituzione, dall’articolo 35 all’articolo 40, ne tutela il valore economico come mezzo per soddisfare i bisogni umani, nell’articolo 4 sancisce il diritto/dovere al lavoro sottolineandone il valore sociale e quello personale, rispettivamente il mezzo per contribuire al bene comune, ottenendone un riconoscimento e lo spazio per valorizzare un talento individuale, tutelando le scelte del lavoratore e la sua elevazione.

Oggi, occuparsi del problema “lavoro” dovrebbe voler dire prima di tutto occuparsi della sua dimensione quantitativa, definendo misure in grado di rilanciare l’economia e le attività produttive, ma allo stesso tempo emerge chiara e forte la necessità di interrogarsi su quale sia la qualità dell’occupazione e quale sarà al momento della tanto desiderata ripresa economica.

La crisi del modello di produzione industriale ha prodotto una forte delocalizzazione verso realtà caratterizzate da basso costo del lavoro e un peggioramento delle condizioni di lavoro e salariali nel nostro Paese.

Il dibattito politico non sembra cogliere la gravità della situazione, anzi alcune delle ultime proposte proseguono sul cammino tracciato fin’ora: un cammino che vede la qualità del rapporto di lavoro, le condizioni codificate nei contratti e quelle tacite, sottomessi al problema della quantità. A volte la storia non insegna! E non solo non si vuol imparare, ma si pensa a soluzioni apparentemente valide nel breve tempo e mai a progetti che possano risanare quello che una volta poteva dirsi un pacchetto di diritti acquisiti, coltivati e difesi, per i quali in tanti hanno combattuto, assumendosi dei rischi.

Il precariato ad oggi risulta essere un male assoluto. Il precariato non ha nulla a che fare con la flessibilità. Il precariato non conosce diritti. Il precario è sottopagato, minacciato. La flessibilità e la mobilità andrebbero pagate con surplus, perché il lavoro a tempo presuppone alcuni rischi di per sé e va reso sicuro almeno economicamente.

Le opportunità di lavorare su progetti a tempo, di inserirsi in un’azienda cogliendone aspetti, punti di forza, occasioni, senza essere legati per tutta la vita (che poi chi lo dice che questo sia un male) dovrebbero essere una scelta fatta dalle risorse umane e non un obbligo; semmai dovrebbe poter essere una tappa iniziale e non una condizione che si sdipana di anno e in anno.

Quelli che hanno (e continuano a farlo) promosso la precarietà come vantaggio non sanno di cosa parlano. Non conoscono il mercato del lavoro, le regole del gioco, le dinamiche che si innescano nel momento in cui domanda e offerta tentano di incontrarsi.

Ad oggi non si può più rimandare, è necessario un vero e proprio rinnovamento culturale, che produca ricchezza attraverso la valorizzazione del lavoro e non attraverso il suo impoverimento (non solo economico).

Un rinnovamento che non preveda più un’analisi settoriale ma che guardi alla complessità della situazione, a come i vari ambiti

vignetta job
(economico, giuridico e sociale) si intersecano, a come il mercato del lavoro si è trasformato: un mutamento che ha coinvolto la dignità della persona, la sua posizione sociale e le sue prospettive future.

Se è vero che l’operaio mette nell’oggetto che produce parte della propria vita, non si può pensare al lavoro come a una semplice attività strumentale. È sempre qualcosa di umano che si realizza mentre, ora, il lavoro è stato nuovamente ridotto a “merce”, e il lavoratore a “forza lavoro”. Un secolo di storia smantellato, e a rimetterci non sono, ovviamente, solo i lavoratori ma l’idea di civiltà, che i padri della Costituzione ambivano a far crescere in tutti noi.

Il circolo vizioso che si è innescato vede tra i tanti mali anche la caduta di professionalità, la mancanza di motivazioni, una bassa produttività e una profonda disaffezione al lavoro.

Occorre una profonda rivalutazione di quello che è il contributo umano nella produzione di benessere, che non è solo economico. Una rivalutazione che ridia forza contrattuale a chi oggi non siede neanche più al tavolo delle trattative perché può essere facilmente sostituito. Una rivalutazione che preveda degli investimenti nella formazione degli individui oltre che nella formazione didattica.

Il lavoro come progetto di realizzazione personale e come strumento di appartenenza comunitaria e di partecipazione alla vita civile del Paese.


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Dossier Paperblog

Magazines