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Il Capitano Mario (XXIX)

Creato il 12 dicembre 2010 da Fabry2010

di
Maria Frasson

(puntate precedenti: I, II, III, IV, V, VI, VII, VIII, IX, X, XI, XII, XIII, XIV, XV, XVI, XVII, XVIII, XIX, XX, XXI, XXII, XXIII, XXIV, XXV, XXVI, XXVII, XXVIII)


Audaces fortuna iuvat


che non è sempre vero.

Mario comunque camminava sul filo di un rasoio. I suoi ricoverati non erano molti e generalmente non gravi. Se qualcuno era tale, veniva trasferito nei vari reparti del Policlinico debitamente attrezzati. Alcuni degenti erano partigiani scampati alla cattura, per i quali il medico vietava visite inopportune, altri erano per lo più innocui militi dell’Esercito Repubblichino di Salò, fra i quali tuttavia si annidavano delle spie, o accertate o probabili, secondo il sempre attivo servizio informazioni OI 40. Mario era per tutti il medico che cura il malato.

Al momento del ricovero, venivano tutti invitati a togliersi la divisa e a deporre le armi, con la promessa che sarebbero state loro restituite al momento del congedo. Nell’attesa invece venivano dirottate in uno sgabuzzino segreto nei vasti sotterranei del Policlinico, oppure nelle cantine della nostra parrocchia di S. Francesco. Il vice-parroco era un animoso giovane affiliato alle organizzazioni segrete: Mario lo aveva voluto come cappellano militare per il suo ospedale; l’anziano parroco era al corrente di tutto e consentiva in silenzio. Il giovane sacerdote era così zelante nel suo dovere che andava ogni giorno a visitare tutti i malati, con grande giovamento spirituale degli stessi e anche del Servizio Informazioni.

Credo che non sia difficile per un medico esperto individuare il presunto malato, distinguendolo da quello che malato non è, ma soltanto una spia. E sono convinta che la maggior parte dei sani, se si sente diagnosticare un principio di una malattia non grave, ma che tale può diventare e che deve essere curato, subito si spaventa e ci crede anche se non ce l’ha. Così faceva il Capitano Mario coi degenti finti malati e autentiche spie, mandate dal comando militare: li tratteneva “in osservazione” prescrivendo loro assoluto riposo, mostrando loro ogni giorno il termometro con un massimo di febbre a 37 e 2, che già se la sentivano, oltre ad una certa spossatezza. Così intanto prolungava la loro degenza, sempre con la prospettiva di una guarigione a breve termine. Provvedevano a vietare le visite i fidati collaboratori del Capitano, il quale con tale espediente teneva premurosamente sequestrati i degenti, al di fuori da ogni possibilità di nuocere. Loro del resto stando per lo più sdraiati, docilmente ignari, si adattavano a tale situazione di riposo che poteva anche far comodo. Intanto la rete delle informazioni si infittiva, sempre meglio organizzata e le staffette raggiungevano miracolosamente a Milano o Maurizio (Ferruccio Parri) o altri dei comando, o riuscivano ad entrare (come pure a uscirne) a San Vittore, oppure a telefonare ai carcerati politici. Era ogni giorno un’avventura. Le più attive staffette erano Franco, lo spericolato detto La Checca, oppure “La Signora”, che era la Silvana Ferro, sorella della scrittrice Marisa Ferro, ex-moglie di Guido Piovene. La Silvana era la compagna di un degente di riguardo dell’Ospedale, combattente che era malato davvero, il Capitano Rovelli, reduce della campagna di Russia, dove s’era preso un paio di pallottole nei polmoni e la tubercolosi ormai senza speranza di guarigione e stava quasi sempre a letto. Nella sua stanza, appartata per vari motivi, dove io andavo spesso a trovarlo, riceveva tranquillamente dei clandestini illustri: c’era sempre nelle vicinanze un infermiere fidato a vigilare e a proteggerlo. Vi approdò un giorno un alto ufficiale inglese paracadutato nei dintorni dell’Ospedale Militare, che si trattenne a lungo con lui perché conosceva bene la lingua. Fu probabilmente costui che consegnò a Mario dei documenti preziosi tra cui i piani militari dell’insurrezione in Lombardia che doveva segnare e infatti segnò la fine del conflitto. Mario li nascose nella fodera interna del berretto da capitano, che appese ad un attaccapanni nel corridoio davanti al suo studio e lo teneva d’occhio. Nessuno doveva sapere di chi fosse quel copricapo, tanto più che lui spesso lo scambiava con un altro, perfettamente uguale. Io, quando vedevo quel berretto, mi sentivo gelare il sangue nelle vene.

E provai la stessa sensazione una volta che Mario venne a Scaldasole a trovarci e mi portò la posta: in mezzo a varie carte c’era un biglietto spiegazzato firmato Maurizio. Si meritava bene uno scappellotto quel distratto di marito!

Dopo vari pensamenti infilammo la missiva nello stipite di una porta un po’scrostata del vecchio castello.

Per me era come quando, una volta, da ragazzina, durante una gita, trovai in un prato dell’Adamello una bomba a mano inesplosa e, poichè non ne avevo mai visto, la portai alla nostra guida alpina, che mi gridò: “Metti giù! Metti giù!” La stessa paura!

Peggiorando le condizioni del Capitano Ravelli, il nostro bravo cappellano militare, ne celebrò le nozze con la Silvana nella cappella dell’Ospedale: testimoni di nozze Mario e io. Brindisi, in camera, con champagne. Tutti felici quel giorno, quantunque il poveretto avesse fatto molta fatica a trascinarsi fino alla cappella: gli mancavano le forze ma era sempre molto sereno. Poco tempo dopo, arrivato al termine della vita e dell’opera, se ne andò con Dio: a breve distanza dai giorni della liberazione.


Nell’ospedale le parole d’ordine erano prudenza e attenzione.

A Mario capitò più di una volta di sentirsi avvisare: “Capitano, la chiamano al telefono dalla caserma delle SS.” Non era vero: lo scopo della trovata era quello di vedere che faccia faceva. Lui, sempre padrone di sé, apparentemente tranquillo, riusciva a non tradirsi. Le SS comunque non entrarono mai nell’Ospedale militare perché, nonostante i sospetti, non ne ebbero mai l’ordine dai comandi nazi-fascisti.

I Tedeschi si vedevano spesso in giro, non parlavano con nessuno, penso per la difficoltà della lingua, ma andavano negli stabilimenti industriali a requisire, ossia a rubare; specialmente negli ultimi tempi della guerra, forse presagi della sconfitta, stipavano i vagoni-merci fermi alla stazione di merci di ogni genere, ossia di tutto quello che potevano portar via. Ma alla stazione faceva servizio di notte l’attento ferroviere detto “Primula rossa”, il quale, d’accordo con Mario, mandava, sempre di notte, due ragazzi: Alberto e un suo amico, entrambi diciottenni, a riprendersi la merce requisita “in nome del popolo italiano”. Erano ladri bravissimi sotto la protezione di Primula Rossa, il quale passeggiava fra i binari, tranquillamente. Non c’era mai nessuno perché i treni diretti in Germania partivano poco prima dell’alba. C’era una stanza vuota nella casa dei miei suoceri, di cui loro avevano la chiave: Alberto vi nascondeva la refurtiva e Mario, che dopo la morte di suo padre si sentiva la responsabilità di tutore del giovanissimo fratello, si rammaricava con me di averlo imprudentemente fatto entrare in quel giro e diceva: “Che cosa ne sarà poi di quel ragazzo, a cui io, proprio io, ho insegnato a rubare?” Scrupoli che mi facevano sorridere, e in fondo mi commuovevano. Alberto divenne un ottimo giovane e fece carriera come direttore di banca. Ma allora c’era la guerra che purtroppo sconvolge ogni cosa.


(continua…)



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