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Il Caso Tavecchio: l’autonomia e l’indipendenza dell’ordinamento sportivo non costituiscano un pretesto ed un alibi

Creato il 06 agosto 2014 da Tifoso Bilanciato @TifBilanciato

Le parole di De Rossi e di Chiellini (cfr. “Il Corriere dello Sport, pag. 7, e “La Gazzetta dello Sport”, pag.10), rappresentano una sintetica condanna delle relazioni politiche intrecciate dalle quattro Leghe e da coloro che le rappresentano, anche da coloro che sino a poco tempo fa si presentavano come innovatori, e che portano avanti il loro candidato, il cui accostamento con la tragedia kennediana è, quantomeno, del tutto privo di gusto.

Ma anche le trancianti affermazioni di rappresentanti delle Istituzioni, sportive e non, circa la totale indipendenza del mondo del calcio, FORSE, meritano attenzione, soprattutto per la pericolosa affermazione di un mondo che si presenta all’opinione pubblica al di fuori di ogni normativa, nazionale ed internazionale.

Questa “disprezzante autonomia” del sistema e dei soggetti che ne reggono le sorti, è esaltata anche nei confronti del CONI e della stessa FIGC laddove nella composizione del Consiglio federale richiede l’obbligatorietà della presenza di atlete: anzi di una “ equa rappresentanza di atlete”.

Su questa “disprezzante autonomia”, l’avv. Rossetti ha redatto un approfondimento tecnico- giuridico, richiamando le posizioni dei Tribunali di merito, della Suprema Corte, della Corte di Giustizia Europea, e della stessa Alta Corte di Giustizia del CONI.

Mi auguro che una attenta lettura del documento possa richiamare quel senso di responsabilità individuale e collettiva nel valutare fatti e comportamenti di un mondo che, almeno questo, non ha bisogno di ulteriori ombre.

 

 

 

 

Con riferimento al caso in esame si è sentito dire, in questi giorni, anche da una fonte autorevolissima come il Presidente del Consiglio dei Ministri, che qualsivoglia intervento esterno all’ordinamento sportivo costituirebbe una violazione dell’autonomia e indipendenza di tale ordinamento.

Si tratta, a mio avviso, di una tesi molto discutibile e che si presta ad essere adoperata come un pretesto ed un alibi per una inerzia totale nei confronti di atti e condotte che, invece, come mi auguro di poter dimostrare in appresso, incidono sul rispetto e sull’applicazione di principi e diritti fondamentali di rango costituzionale, sia interno che esterno (Normative dell’Unione Europea).

 

Và detto, innanzitutto, che l’ordinamento sportivo, secondo la definizione datane dalla Corte di Cassazione ( cfr. Sentenza n. 625 dell’11 febbraio 1978), è un ordinamento giuridico sezionale, autonomo, avente in sé potestà amministrativa, normativa e giurisdizionale, ma che attinge la sua fonte ed è sottordinato all’ordinamento statale ed all’ordinamento internazionale.

Esso, cioè, pur godendo di autonomia, nel senso che emette norme interne proprie, è governato da propri organi interni ed ha una propria giurisdizione interna, tuttavia, non è sovrano, derivando la sua autonomia, per l’appunto, sia dall’ordinamento generale nazionale sia da quello internazionale. Tanto è vero che la legge n. 280/2003, pur riaffermando l’autonomia dell’ordinamento sportivo, fa, comunque, salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento statale di situazioni giuridiche soggettive connesse con il primo ordinamento.

Sotto il profilo internazionale, lo sport rientra nell’ambito di competenza ed applicazione del diritto comunitario. Da qui l’ormai storica sentenza Bosman che, avendo riconosciuto essere l’attività sportiva una attività economica ai sensi del Trattato CE, ne ha fatto derivare l’illegittimità del vincolo di trasferimento sancito dall’ordinamento sportivo, nazionale ed internazionale, dei calciatori, poiché ostacolo ingiustificabile alla libera circolazione dei lavoratori.

Da qui la ritenuta discriminatorietà di quelle norme sportive limitanti, nella composizione delle squadre professionistiche, la presenza di giocatori cittadini di Stati non facenti parte della CE, ma legati a quest’ultima da Trattati di Associazione o di Cooperazione.

Da qui, ancora, il principio secondo cui qualsiasi norma sportiva deve rispettare il diritto europeo sulla concorrenza, ancorchè si verta in materia antidoping ( cfr. Sentenza Corte di Giustizia Europea, Mecca/Medina del 18 luglio 2006).

 

Una volta così delineati i criteri che, sotto il profilo teorico, caratterizzano l’autonomia e l’indipendenza dell’ordinamento sportivo, criteri che, riassuntivamente, possono condensarsi nel principio che lo sport non è al di sopra della legge, esente da essa ed al di fuori da ogni controllo giuridico ( cfr.”La specificità dello sport nell’Unione Europea” di Julien Zylberstein, Coordinatore per gli Affari Europei per l’UEFA, in Rivista di Diritto ed Economia dello Sport, Vol.IV, Fasc. 1, 2008), vediamo ora come, alla luce di tali criteri, può – deve – essere correttamente inquadrata la fattispecie in oggetto.

 

L’interrogativo che immediatamente si pone, anzi si impone, è se, nella situazione data, il commissariamento della FIGC, disposto dal CONI o, in mancanza o nella impossibilità  di un intervento di quest’ultimo, in via surrogatoria, ex lege, sia compatibile con il rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordinamento sportivo.

La risposta da dare al quesito è, a mio parere, positiva.

Per quanto riguarda il CONI, il commissariamento disposto da quest’ultimo, in quanto massima Istituzione sportiva nazionale, cui la legge riconosce ed attribuisce il potere di supremazia su tutti gli altri soggetti facenti parte dell’ordinamento sportivo nazionale, non pone alcun problema sotto il profilo dell’eventuale, mancato rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordinamento sportivo.

Peraltro, come già da me evidenziato nelle mie Note “Rinnovamento della FIGC: commissariamento o ritorno al passato ed al presente?” del 30 giugno scorso, (cfr. www.federsupporter.it), i casi di commissariamento previsti dall’art. 23, comma 3, dello Statuto del CONI (accertate, gravi irregolarità nella gestione o gravi violazioni del diritto sportivo da parte degli organi federali; non garanzia del regolare avvio e svolgimento delle competizioni sportive; constatata impossibilità di funzionamento dei medesimi organi) sono da interpretare non in maniera tassativa ed esaustiva.

A questo proposito, ben potrebbe essere legittimo il ricorso al commissariamento da parte del CONI, per esempio,  qualora esso riscontrasse che una Federazione, nella disciplina, regolazione e gestione della sua attività, non garantisse più di essere una parte integrante dell’educazione e della cultura nazionale o non seguisse più principi contro l’esclusione, le disuguaglianze, il razzismo e la xenofobia o seguisse  principi non più conciliabili con la dimensione popolare, sociale, educativa e culturale dello sport. 

Finalità e funzioni istituzionali, quelle sopra elencate, che l’ordinamento statale attribuisce al CONI e, di conseguenza, a tutti gli altri soggetti facenti parte dell’ordinamento sportivo.

 

D’altronde, gli organi della FIGC già si trovano, per altro verso, in una situazione di grave violazione del diritto sportivo, poiché non hanno rispettato e non rispettano la disposizione, di cui  all’art. 26, comma 1,  del vigente Statuto federale,  secondo la quale , nella composizione del Consiglio federale, “deve essere assicurata una equa rappresentanza di atlete”: mancata assicurazione che costituisce, di per sé, un comportamento discriminatorio per motivi di genere (nessuna atleta donna fa parte del Consiglio federale)  .

Ed è, quindi, sulla base delle finalità e funzioni anzidette, che il comportamento di una Federazione sportiva nazionale, la quale  consenta la candidatura e, peggio, l’elezione alla carica di Presidente federale di un soggetto che abbia tenuto una condotta discriminatoria, deve essere valutata sotto il profilo di un caso di grave violazione dell’ordinamento e del diritto sportivo.

In tal caso, a mio avviso, il commissariamento da parte del CONI, non solo sarebbe del tutto legittimo, ma, anzi, doveroso.

 

Circa un commissariamento ex lege, in caso di accertata inerzia o dichiarata impossibilità del CONI a provvedervi, và tenuto presente quanto segue.

L’Alta Corte di Giustizia del CONI, con decisione n. 4 del 13 febbraio 2013, preceduta dalle decisioni n. 9 del 2012 e n. 15 del 2011, proprio avuto riguardo ai rapporti tra ordinamento sportivo, da un lato, e ordinamento statale e costituzionale, nonché internazionale, dall’altro, ha sancito che “l’ordinamento della Giustizia sportiva, per quanto autonomo ed indipendente, non può sottrarsi ai principi fondamentali irrinunciabili, contenuti nella Costituzione Italiana e negli atti, anche essi fondamentali, dell’Unione Europea, dovendosi invece interpretare ed applicare le norme dell’ordinamento sportivo alla luce degli anzidetti principi fondamentali, soprattutto quelli attinenti alla persona umana ed alla sua tutela” .

In particolare, la decisione n. 4 del 13 febbraio 2013 concerneva un caso di discriminazione di un calciatore per motivi di cittadinanza.

L’Avv. Salvatore Civale, nel suo commento  alla suddetta decisione, in Rivista di Diritto ed Economia dello Sport, Vol IX, Fasc. I, 2013, alla pag. 157, così incisivamente afferma : “La visione dell’ordinamento sportivo federale conforme ai principi dettati dal sistema, costituito dalla Costituzione Italiana, dall’Unione Europea e dalla FIFA, ritenuta essenziale dall’Alta Corte di Giustizia Sportiva del CONI, rappresenta un evidente limite alla tanto conclamata indipendenza ed autonomia dello sport, in nome della sua specificità.

 

Ma se così è, poiché le condotte discriminatorie sono contrarie al principio di eguaglianza previsto e garantito dall’art. 3 della nostra Costituzione e sono contrarie alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ( CEDU) e al Trattato Unico Europeo (TUE) che vietano e combattono ogni forma di discriminazione ( per motivi di sesso, razza, colore, lingua, religione, opinione politica, origine nazionale o sociale, appartenenza ad una minoranza etnica), non si vede come un provvedimento di legge, volto ad assicurare, nell’inerzia o nell’impossibilità a provvedere dell’ordinamento sportivo, che un soggetto, autore di una condotta discriminatoria, non possa accedere alla carica di Presidente di una Federazione sportiva nazionale, possa essere considerato assunto in violazione dell’autonomia e dell’indipendenza del predetto ordinamento sportivo.

Quell’ordinamento che, in conformità ai principi costituzionali, nazionali ed internazionali, vieta e sanziona condotte discriminatorie dei propri appartenenti.

E sarebbe, invero, paradossale, per non dire grottesco, che la FIFA e l’UEFA, paladine della lotta contro ogni forma di discriminazione, reagissero, coprendosi di ridicolo, avverso un provvedimento legislativo, avente lo scopo, come detto, di impedire, in via surrogatoria, che l’autore di una condotta discriminatoria possa diventare Presidente di una Federazione calcistica nazionale, sull’assunto che, in tal caso, il provvedimento violerebbe l’autonomia e l’indipendenza di un ordinamento, quello sportivo, dimostratosi inerte  o privo della possibilità di intervenire.

 

Un ulteriore interrogativo può porsi circa la qualificazione di condotta discriminatoria delle dichiarazioni rese in pubblico dal rag. Tavecchio in occasione della presentazione della sua candidatura alla Presidenza della FIGC.

Sul punto è utile rifarsi ad una giurisprudenza, di legittimità e di merito, in materia penale.

Con riferimento alla legge n.205/1993, così detta “Legge Mancino” e successive modificazioni e integrazioni, recante “Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa”, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 30525 del 2013, ha stabilito che il movente sottostante all’espressione razzista non ha alcuna importanza, non essendo necessaria alcuna indagine sulla motivazione soggettiva di chi l’ha posta in essere, una volta oggettivatasi la finalità di un consapevole comportamento esteriore.

Il reato (Tribunale di Verona, sentenza n.2203 del 2 dicembre 2004/24 febbraio 2005) è di pura condotta o di pericolo astratto, a nulla rilevando che l’azione o la condotta stessa abbiano prodotto degli effetti, né è necessario che esse siano percepite come offensive, ben potendo l’espressione o la condotta razzistiche avere un carattere implicito, diverso da atti flagranti o da chiare ed esplicite manifestazioni di idee.

L’appellativo utilizzato per rivolgersi con spregio ad una persona avente una specifica nazionalità, in luogo del suo nome e cognome, ha una chiara idoneità lesiva, in specie se accompagnata da atteggiamenti di scherno e derisione e  costituisce ingiuria aggravata dall’intento di discriminazione razziale (Cassazione, sentenza n. 19368 del 5 aprile 2005).

Come si può, pertanto, constatare, le dichiarazioni del rag. Tavecchio potrebbero essere anche penalmente rilevanti.

A maggior ragione, esse vanno considerate rilevanti dal punto di vista dell’ordinamento e del diritto sportivo che ha come valori, principi e doveri fondanti e fondamentali quelli della correttezza, lealtà e probità: vale a dire valori, principi e doveri di natura etico-morale, piuttosto che giuridico-penale.

Né ciò di cui si discute e che rileva è la vita o la persona del rag. Tavecchio, bensì una sua precisa e specifica condotta, posta coscientemente e consapevolmente in atto, in pubblico e nella veste e qualità, non solo di Presidente di una Lega Calcistica, ma, addirittura, di candidato alla Presidenza Federale.

Circostanze di tempo, di luogo e attinenti alle qualità personali che rendono tale condotta, se possibile, ancora più grave e rilevante dal punto di vista discriminatorio.

Tutto, perciò, porta a concludere che il rag. Tavecchio, a prescindere da altre qualità e caratteristiche personali, nonché da storie di vita, pur meritevoli e degne di apprezzamento, tuttavia, per la specifica condotta da lui tenuta in occasione della sua candidatura, non può ricoprire la carica di Presidente federale, per il rispetto e l’osservanza dovute a principi e valori costituzionalmente previsti e garantiti, nonché previsti e garantiti dall’ordinamento internazionale, oltreché dallo stesso ordinamento sportivo, nazionale ed internazionale.

Rispetto ed osservanza che non possono essere messi nel nulla da una pretesa, malintesa e insussistente, totale, assoluta autonomia ed indipendenza dell’ordinamento sportivo , che non possono  mai diventare antinomiche all’ordinamento generale.

Rispetto ed osservanza, altresì, che, nell’inerzia o nella dichiarata impossibilità dell’ordinamento sportivo di provvedervi, possono, anzi debbono, essere assicurati, anche mediante interventi surrogatori, dall’ordinamento statale, che, in questo caso, giammai possono essere considerati come un vulnus all’autonomia ed indipendenza, correttamente intese, di cui sopra.

La verità è che, come tutti o quasi tutti hanno ormai ben compreso, il rag. Tavecchio è spinto ad insistere pervicacemente nella sua candidatura, magari anche contro la sua intima volontà e convinzione, da un Consigliere federale “ urlatore” ( leggasi “Il Corriere dello Sport”, pagg 1 e 18 del 2 agosto scorso) che, per il suo tramite, intende rafforzare ed incrementare il dispotico e protervo potere personale di cui dispone e di cui vorrebbe vieppiù disporre nell’ambito calcistico.

Un potere che è riuscito a far capovolgere , da parte della FIGC, a suo favore, il principio cardine del diritto penale “nulla poena sine crimine” in “nullum crimen sine poena “ .

Il rag. Tavecchio, insomma, somiglia a quella “ombra del guerriero” dell’omonimo film giapponese, in cui un uomo qualunque, sosia di un potente signore della guerra morto, ne prende il posto per non far venire meno il morale e lo spirito combattivo della fazione e delle truppe del defunto.

Né il rag. Tavecchio, o chi per lui, se la può cavare a buon mercato, come il barone Zazà, interpretato da Totò nel film “ Signori si nasce”, il quale, avendo perso al giuoco e non volendo pagare, esclama “ Ma io scherzavo!”.

 

(Avv. Massimo Rossetti, Responsabile dell’Area Giuridico-Legale)

 


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