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Il contenuto dello zaino. Un racconto di Alessandro Spanu

Da Criticaimpura @CriticaImpura
William Vandivert - Bus Laying

William Vandivert – Bus Laying

Di ALESSANDRO SPANU

“la fotografia li ha fissati vivi,

e ora li conserva

sopra la terra verso la terra”

W. Szymborska 

 

I

Londra  11/3/2005

Londra ha il cuore come il mio, la densità della nebbia e il gelo di piogge antelucane, mentre il sole accerchiato, s’affatica per trovare uno spazio tra le fessure di questo muro di aria liquida.  S’incrociano a King’s Cross di quelle belve, e a Tottenham Court Road, e il pallore di tredici turisti in shorts mi ripugna ogni mattina, quando scendo quelle scale mobili e respiro aria viziata, direttamente dal ventre della dea che presiede le fondamenta della città. E’ lezzo di morte, come se la peste non fosse mai stata debellata, come se il fuoco non avesse mai purificato il suo spirito che attraverso i secoli si è fatto più resistente, più versatile. Perfettamente adeso al suo tempo, un tempo post-umano, post-politico, un eterno jingle pubblicitario che fa da sottofondo musicale a questa parodia di esistenza.

Cammino colla mano nella mano  della mia fidanzata, tagliando la folla di un sabato mattina soffocante. Ho mal di testa a causa della birra annacquata e dei doppi turni della settimana, giù in cucina, nel sottosuolo.  Le mani dolenti per le troppe padelle sollevate,  sono solcate da tagli appena rimarginati e bucherellate da miriadi di piccole ustioni. Non ero solito tenere la mano delle donne in pubblico, al mio paese. Ho sempre pensato fosse un gesto osceno, l’ostentare il bene, il sentimento, la forza dell’unione. Mi piaceva distinguermi, giocare il ruolo del non convenzionale.  In una città come questa però, che succhia via la vita, persino il minimo contatto è tesoro, un bambino che non si separa mai dallo spago del  palloncino. A  questo, aggiungete la paura inconscia dell’isolano di subire il furto del suo animale, della sua donna,  gli strumenti sociali.

Esistono barriere che persino possedendo  una mente viva e istruita non si  abbattono mai del tutto. Scattano meccanismi di autodifesa che possono imbarazzare da principio, atteggiamenti un po’ rozzi ma efficaci, creati dalle nostre proteine mitocondriali. Alla fine non li si abbandona. Si conserva l’animalità proprio nell’epicentro dell’ occidente progredito. A dispetto del cosiddetto primo mondo. La cultura, lo stupro che l’uomo continentale subisce da millenni, permea ogni angolo di questo spazio-recinto che chiamiamo società. Ecco perché   tenere la mano della mia ragazza mi sembra il gesto più animale che si possa compiere in questo mondo asettico, umano. La mondità dell’automatico.

Cammino sulla Clapham High Road dunque, una mattina di marzo, fredda e leggermente piovosa. Il concetto di bel tempo è molto elastico qui, e più della metà delle donne fra i ventitré e i quarantacinque anni soffre di disturbi dell’umore. Almeno questo è quello che si legge sull’Evening Standard. Giornalisticamente, il numero è semplicemente la riduzione simbolica dei corpi: i corpi non appartengono ai loro possessori, e questo già lo sapevamo. Così come il tempo non appartiene al vissuto. Il tempo appartiene a un concetto, o meglio, una costruzione sedimentaria di concetti che nella loro totalità vengono chiamati il capitale.

Il tempo appartiene al capitale. Prima apparteneva a Dio, (tutte le ore sono del Signore, dicevano le donnette topo di sagrestia) e nessuno si azzardava a violentarlo. Per un breve periodo qualcuno era riuscito a impadronirsi del proprio tempo. Non se ne  ha più memoria, se non forse su qualche lapide  o  fra gli scaffali dell’archivio di un manicomio.

Il tempo appartiene ai centri commerciali, ai ristoranti, agli stadi, ai pub, ai centri di scommessa, ai media, ai mercati.

Attraverso la Clapham high road, soffermandomi su questi dettagli dei passeggini a quattro posti, guidati da ragazze di diciassette anni vistosamente truccate, sovrappeso; dei bambini dentro ai passeggini che divorano secchielli di pollo fritto e bicchieri enormi di coca cola. La maggior parte di loro sono obesi, fanno fatica a respirare, imbragati come tacchini. Un domani finiranno per spostarsi con quelle macchinette elettriche per ciccioni, ritornando così ai loro passeggini. Questa sistema produce eterni bambini. I bambini sono dei perfetti consumatori. Esseri desideranti, che cercano il godimento infinito. C’è chi è preposto a estendere questo godimento oltre il limite. Quando i desideri finiscono e questi non sanno più di cosa godere,  c’è chi detta la lista del piacere. Più grande, più “bello”. La bellezza è nell’occhio di chi guarda. Ma noi non guardiamo più nulla. Esiste un nulla, però,  che guarda noi continuamente. E’ in quell’occhio scopofilo che risiede la bellezza del nostro tempo. A questi esseri desideranti, non è più concesso guardare.   Gli sono  stati rubati il tempo e la vista, anche se i loro corpi si deteriorano e invecchiano ugualmente. i loro denti si cariano e marciscono per l’eccesso di zuccheri, i loro cuori si ammalano per il troppo grasso che li avvolge, i loro cervelli si atrofizzano per una combinazione di cattiva nutrizione e tv spazzatura. Ad ogni fine settimana è questo che rimane:  dei bambini piangenti , timorati del dio dello schermo – Unica Verità Contemporanea e Accettata-  l’occhio in cui tutti ci riflettiamo.

 Osservo, dunque, una messa. Una funzione religiosa caotica, non disciplinata, senza liturgia o gerarchia se non quella dettata dal colore della carta di credito. La povertà imbellettata della metropoli  ha quasi  odore. Un cocktail di odori. Una parte di profumo di scarsa qualità di H&M, una parte di fetore di carne Halal lasciata frollare al sole, due parti di sudore acido, una spruzzata di odore di pizza iperlievitata.

Ogni movimento di questa materia umana è un rituale inconscio e disomogeneo, un canto distonico : urla di guerra. Ogni segno, ogni simbolo, ogni logo è un memento alla presunta vittoria della società capitalistica.  Logo, palesemente, deriva da “logos”, il senso. E qual è il senso di questo? La risposta facile sarebbe che ciò che produce senso è il prodotto stesso nella sua riduzione iconica. Un marchio, un sigillo alchemico che lega la comunità al suo assoluto, la merce. E grazie a dio (ancora lui) non credo alle dicotomie: capitale -  lavoro liquido – solido. La sostanza del mondo come vissuto si dispiega semplicemente secondo modalità che si equilibrano. Le croci simboleggiavano l’autorità di Roma antica. Le donne obese inscatolate in piccole macchinette a batteria, gli assalti ai centri commerciali e persino i barboni che raccolgono la colatura di questo sistema, significano una  superiorità morale del libero arbitrio. Pur non essendoci alcuna morale,  alcuna predestinazione: le scelte che facciamo sono pilotate solamente da una fame che  portiamo  da quando ci siamo staccati dalla vita nuda.  Non teme alternativa questa fame , perché  nasce e muore al suo interno. Come un demiurgo , che crea il suo avversario, smettendo di operare e lasciando a una sua emanazione minore il compito di governare un trono vuoto,  così il capitale è inattivo, diluendosi indefinitamente in milioni di microstrutture. Il ribelle, l’avversario, il resistente sono nulla più  che anticorpi, cellule incaricate di ristabilire l’equilibrio. Esattamente come l’Imam fermo al centro della Clapham High Road. Nel mezzo del caos dello shopping, un urlo si solleva più forte degli altri. Inizialmente, penso a un pazzo, a un tossico. Pian piano inizio a distinguere le semivocali dell’arabo, probabilmente passi del Corano. Poi come un mantra, in un inglese stentato :

-   The day is coming. Allah hu Akbar. The day is coming. -

La mia fidanzata allenta la presa della mano, si libera e punta il suo indice inanellato verso l’Imam.

-   Non indicarlo, piccola –

-   Ma lo senti cosa dice? – replica lei.

-   Sta dicendo che il giorno è vicino. Lo dicono da quando gli anni hanno iniziato a riprodursi. Non farci caso. –

La mia fidanzata scrolla le spalle, come investita da un brivido di freddo.

-   Mi fa paura. Ho un brutto feedback. – sibila.

-   Non è il primo che vedi o che senti – rispondo laconico.

-   Non lo so. Ho provato una sensazione strana. –

La mia ragazza crede di sentire “le cose”. E in un certo senso le sente veramente, inspiegabilmente, il suo istinto fallisce di rado. Lasciando la mia razionalità interdetta, la mia logica asettica ferita.

Per una frazione di secondo, i miei occhi incrociano quelli dell’Imam. Sono occhi vuoti, colmi di nulla. Non c’è odio né amore, o rabbia, né passione. Solo quella follia faticosamente guadagnata, tramite la mortificazione dell’intelletto e del corpo. Quel vuoto, il capitale non lo può controllare. Il suo tempo non gli può essere sottratto: non ne possiede alcuno. C’è una smorfia sul volto dell’Imam che mi riguarda. Sembra che riesca a vedermi  attraverso, come mosso da pena. Sbatto le palpebre e la sua testa è nuovamente rivolta al cielo, pazientemente nell’attesa di ricongiungersi col suo dio.

II

Londra 7/7/2005

Mi sento libero e non osservato oggi. Tutta l’attenzione dell’Occhio è rivolta al suo avversario. L’uomo dagli occhi di Nulla.  Il giorno è arrivato ma un dio umano, androgino ha forzato la porta della profezia.

Dopo aver tentato almeno una dozzina di volte di trovare un taxi, decido di farmela a piedi. Nel deserto della città evacuata. Sono l’ultimo uomo, aponico, che cammina lungo la vena di una dea di ferro e cemento. Ho il cellulare isolato, e non riesco a mettermi in contatto con nessuno. Questa mattina, mentre uscivo di casa pensavo a quanto fossi in anticipo. Solitamente mi alzo sempre all’ultimo momento: questa mattina per una strana coincidenza mi trovavo in piedi alle sette meno un quarto.  Questo accidente credo mi abbia salvato la vita .Per quindici minuti sono riuscito ad evitare il treno dove  un presunto membro di Al-Qaeda ha fatto esplodere un ordigno artigianale a base di perossido organico, nei pressi della stazione di Aldgate, cuore della City. Perossido organico. Praticamente ossigeno per decolorare i capelli mescolato con acetone. Il prodotto di bellezza muta in strumento di morte, la civiltà del consumo produce i suoi avversari, i suoi nemici, gli artefici della propria distruzione. Non sorprende che il bipolarismo sia uno dei disturbi più diffusi in occidente. La natura stessa di questo sistema è schizofrenica nel suo dispiegarsi: la nostra civiltà odia sé stessa però a un tempo ama i frutti che produce. Si compiace e poi si pente, gode e poi si autoflagella. Le bombe, il terrore,  sono il cilicio del Potere.

 La detonazione è avvenuta alle 8 e 50, sul vagone numero 204. Il 7/7 2005. Due più cinque sette. Tre volte sette. Già penso alle speculazioni cabalistiche degli esoteristi internauti fai da te. Io sono sceso alle 0836, dalla stessa linea, ma dal vagone numero 205. Otto più tre, undici, più sei : sette. 2+5: ancora sette.

Ho appreso dell’esplosione di Aldgate  alla radio, giù in cucina, sotto le scale. Mi era parso di sentire un boato mentre accendevo i piloti delle stufe, i forni, gli estrattori dell’aria.  Le notizie si sono accavallate e inseguite a una frequenza caotica: le bombe sono sei o sette, i morti centinaia il centro di Londra evacuato l’esercito presidia le strade i Typhoon della RAF sorvolano gli edifici principali e i centri nevralgici gli attentati vengono persino attribuiti all’IRA  che l’IRA oramai controlla a malapena un quartiere di Belfast figurati se. E poi finisce come il primo ministro spagnolo che dopo l’attentato di Madrid da la colpa all’ETA e viene sbugiardato da tutti e perde le elezioni. Aznar piccolissimo uomo. Si cambia registro dunque, puntiamo sull’arabo, l’arabo è un evergreen. uno degli attentatori frequentava una nota moschea di Luton un altro era un insegnante immigrato di terza generazione un insospettabile un uomo calmo casa e lavoro oddio i nostri bambini nelle mani di quello schifoso terrorista . La massiccia orwelliana campagna di assalto psicologico è iniziata. Si giudica la paura immotivata con troppa sufficienza quando non si è al centro della tempesta che la emette, come radiazioni a impulso.

Mi trovo al centro di un’immagine morta di un set, in una ripetizione circolare. Tutto è doxastico, ovvero pura diarrea di opinioni calcinate, che si stratificano nella loro nullità e ritornano nel nulla che le ha prodotte. La dialettica è ridotta a uno. Uno è il numero del Potere, la scelta non esiste, sono manifestazioni della medesima ideologia. Poi i giornali sono tutti di Murdoch, i media si servono delle stesse due o tre agenzie di stampa controllate dalle medesime corporations. Che vuoi che se ne cavi se non un intrico confuso ad arte di mezze verità, menzogne, fatti assolutamente non pertinenti alla vicenda. Dettagli morbosi sulle vite dei presunti attentatori intervallati da “reportage” sull’Islam radicale e brillanti excursus sul Corano e Maometto. Questo avviene nel giro di tre ore, mentre si loda la compostezza degli inglesi che si dimostrano “defiant” come titolano i primi quotidiani. Nei giorni a seguire, a Londra saranno sospesi i diritti costituzionali, moschee saranno incendiate e la polizia farà il bello e il cattivo tempo. Dal pestaggio, all’abuso di potere, fino al vero e proprio omicidio a sangue freddo. Un ragazzo brasiliano sarà la prima vittima di questo stato d’eccezione: cadrà colpito da una scarica di proiettili sparata dalla  pistola di un agente. I pastori della violenza guidano il gregge attraverso la via del sangue e della vendetta. Vai alla faccia del ragazzo brasiliano. Quella mattina uscirà di casa già terrorizzato: la sua  Visa è scaduta da tre mesi e la città è praticamente sotto assedio. Cercherà comunque di recarsi a lavoro confidando nella statistica. Ma è estate e lui è scuro. Luce e ombra. Il sangue è più denso dell’acqua dicono. Mentre starà  per prendere la metro, un poliziotto lo noterà. Noterà la paura che non riesce a mascherare. Gli intimerà di fermarsi e quel ragazzo farà la cosa più stupida della sua vita. Correrà. Salterà da un vagone all’altro, con la consapevolezza di essere fottuto. Alla fine il calore del metallo dentro la sua carne sarà quasi una liberazione. Finalmente non dovrà più nascondersi. Anche se Lui, l’Occhio Scopofilo sapeva già tutto sul ragazzo brasiliano. Sul ragazzo brasiliano che era, è e sarà. Su tutti i ragazzi brasiliani dalla Visa scaduta, o con un po’ di erba nelle tasche.  Ma quella morte ristabilirà l’equilibrio e riporterà tutti a riflettere. Questo fanno i martiri, ridisegnano la mappa intorno alla comunità.

Dal basement dove lavoro ascolto la sinfonia pubblicitaria dell’occidente, che si fa vittima per poter sacrificare, per motivare eticamente la guerra e il controllo. Gli uffici sono stati evacuati e gli operatori della City vengono dirottati verso pub e ristoranti. Verso le dieci, la sala assomigliava alle stazioni dell’Underground durante i bombardamenti dei tedeschi. Si sono slacciati la cravatta, gli uomini, e le donne sfilati  i tacchi. Erano composti e impassibili. Spaventati ma non  nel panico. Tutto ciò che si sono limitati  a fare è stato ordinare decine di bottiglie di vino. C’è un signore grasso, un city man, che ride ubriaco marcio, sudato. Dalle maniche arrotolate della camicia si intravede la carne rosa, molliccia, dallo scollo il biancore della pelle, fino verso il viso, prognato e paonazzo. Per lui è solo una giornata più movimentata del solito. I morti sono opportunità, le disgrazie muovono capitali in un modo o nell’altro. E siamo entrambi reclusi in questo sottoscala, il povero e il ricco, prigionieri. Io ho paura, mentre il businessman grasso continua a mangiare e a bere, l’ultimo uomo di fronte al collasso della civiltà, fa questo. Il caos gli scivola addosso, perché ne fa parte: è caos lui stesso. Per questo si adatta ad ogni situazione come un virus. Possiede la consapevolezza di come sia vacuo il mondo, il nichilismo del potere e del denaro. Persino in questa giornata surreale, dove per la prima volta nella mia vita mi trovo  al centro di una storia, della Storia tutta. Tutto quello che ho desiderato fino a quando la polizia ci ha lasciati uscire dalla City è stato tornare a casa, abbracciare la mia ragazza e dirle che tutto andava bene. Il tizio grasso con le maniche arrotolate, probabilmente una volta che la polizia toglierà il coprifuoco se ne andrà in qualche hotel con una escort da diecimila sterline a notte, si svuoterà i coglioni e domani sarà in ufficio. Una riga di bamba nel cesso del quarantatreesimo piano del Saint Marie Axe, e poi di nuovo al computer a guardare indici e proiezioni di oggetti finanziari che non hanno nessun riscontro nel reale. Il reale cos’è? E’ un concetto alla fine, il cui contenuto è la fede di chi gli da concretezza. Sono cose al di sopra delle nostre teste. Io non ho capitali da muovere: ho solo una donna che mi aspetta per essere consolata. Noi abbiamo paura perché ancora crediamo nell’umano .

 Quei cazzo di musulmani di merda. Ma io lo sentivo, mi dirà lei. La paura e l’odio. Obbiettivo è essere al di là della macchina da presa, non sulla scena. Sulla scena, è il furore dell’irrazionalità che comanda. Jeremy Bentham diceva che la segretezza è una forma di cospirazione, e pertanto non dovrebbe essere mai impiegata come sistema di governo. In qualche pub qui vicino ,  ha condiviso le idee che hanno reso grande il sistema giuridico anglosassone. Lo ha fatto inventando uno dei più terrificanti sistemi di controllo della storia. Londra è un immenso panopticon. È  per questo che in tempo reale, stamattina, abbiamo potuto vedere le prime immagini poco definite di uno degli attentatori. Il sistema già lo guardava, era già al corrente, paradossalmente. Ma non ha impedito che l’evento accadesse. Non so se sia una questione di libero arbitrio o di  semplice debolezza, una falla del sistema, un distacco della retina di quest’occhio scopofilo.  

Cammino nella città deserta, sulla pelle della dea ferita. Un bus mi passa accanto, vuoto, come se fosse una carrozza fantasma di un racconto gotico. L’autista guida lentamente, probabilmente si rende conto che è una stronzata immensa. In un giorno come questo girare per Londra senza sapere cosa sia realmente accaduto. Gli unici occhi ancora aperti sono quelli delle telecamere che cingono la città, gli occhi che sorvegliano e puniscono.

Ci metto quasi due ore ad arrivare a casa. I tendini delle caviglie bruciano, i polpacci sono allo stremo e sento il petto come schiantarsi sotto la pressione dell’ansia. Registro ogni dettaglio, ogni angolo di strada, ogni fregio di ponte, ogni albero. Poi dopo un’estenuante camminata, intravedo la via di casa. Solo  per un attimo,  in cui apro tremante la porta, mi sento sollevato: la disperazione e l’angoscia mi colpiscono nello stesso istante in cui la richiudo alle mie spalle.

III

L’occhio scopofilo della telecamera a circuito chiuso mi interroga silenziosamente, una piccola sfera fumo di Londra posizionata nell’angolo in alto della cabina del conducente. Il bus comincia a muoversi lentamente, come se l’aria fosse di una densità simile a quella dell’acqua di palude o di una gelatina. Riempio i polmoni di quest’aria acquosa, nauseante, materica. Accodato, nel silenzio ovattato degli i-pod, salgo le scale che mi portano al piano superiore del mezzo e non riesco a percepire neppure la gravità. Solo percepisco la gravità degli altri corpi, schiacciati contro i vetri, nella loro duplice natura di esseri osservanti ed osservati. Su un posto vuoto, raccolgo una copia dell’Evening Standard, che titola con cubi di lettere nere: Sprezzanti. La rimozione della paura. Ostentare compostezza, mentre il piacere di guardare diventa quello di essere guardati. Questi frammenti di corpi, chiedono allo sguardo altrui quello sforzo che ad un tratto è diventato soffocante, nell’affrontare la vista. C’è un ragazzo pakistano con uno zaino sulle spalle. E’ in un angolo dell’autobus, circondato da caselle vuote come un numero del Sudoku. Se lo vedeste in quelle immagini scopofile delle telecamere a circuito chiuso, non lo potreste distinguere dal ragazzo pakistano che si è fatto esplodere quattro giorni fa in un mezzo proprio come questo, con uno zaino proprio come quello. A pensarci bene,  lo zaino,  il ragazzo pakistano assomigliano all’immagine di quel ragazzo pakistano con quellozaino. Ma i frame di zaino e pakistano sovrastano nella loro essenza di significanti simbolici: tutte le sfumature di senso giacciono sepolte dalla mole di in-formazioni della televisione e dei giornali. Ho letto: la paura azzera la razionalità. Ma è davvero questo? Lasciare posti vuoti intorno a qualcuno solo per il fatto di rispondere alla definizione di pachistano con lo zaino, può essere definita paura? Può essere assenza di razionalità? E che cos’è che si azzera? Si azzera il ragazzo pachistano nel tentativo di apparire il menopachistano possibile, di rendere lo zaino meno ingombrante possibile, di occupare, se possibile il minimo dello spazio concepibile. E si maledice, io so, per aver scelto uno zaino a spalle, invece che una borsello da portare con la tracolla, quella mattina. In quel caso, sarebbe stato solo un pachistano qualunque. Si può essere incerti di un pakistano qualunque, ma non di un pachistano con lo zaino. Altre persone salgono sul bus, lasciando quei posti vuoti intorno al ragazzo . Preferiscono stare in piedi, anche appoggiati ad una balaustra, in attesa che sia la loro fermata. Guardo il ragazzo pachistano e guardo tutti loro che lo guardano senza vedere. Si è detto: l’undici settembre ha cambiato tutto. Ma non si dice cosa sia cambiato. Vai all’immagine delle torri che si accartocciano, che collassano su loro stesse. Le immagini ad alta definizione, nella loro molteplicità di angolature che non lasciano spazio a nessuna inferenza estetica. Tutto è esposto, l’oggetto è nudo, immediato, totalmente chiuso nella sua immanenza. Guarda. Osserva il contrasto fraqueste immagini, iper-reali, nitide, fluide e quelle delle telecamere a circuito chiuso che mostrano l’attentatore con lo zaino. Sono scattose, poco nitide, confuse. Sono iconiche. Non conta vedere. Quell’oggetto, nella sua imperfezione è mediato dalle parole zaino e pachistano. L’immagine del crollo unifica quella percezione frammentaria che avvertiamo. E’ la parola che ci mancava per esprimere quell’angoscia. Zaino è dunque diventata un’immagine, mentre l’immagine si è fatta verbo. Nessuno si domanda più: che forma ha lo zaino? Di che colore è? Quale il modello e la marca? E’ ciò che lo zaino contiene che lo definisce.

Il bus attraversa a fatica la densità di quell’aria paludosa, si trascina a singhiozzi. Ad ogni sussulto, ad ogni frenata, ognuno cerca di recuperare spazio, posizione. Un urlo, ad un tratto, immobilizza questa pulsazione, fissando il punto zero. E allora non vedi più corpi, forme estese, ma un’unica concentrazione di materia, che si ammassa nell’imbuto delle scale, trascinata dal panico e dall’inerzia della frenata, calpestandosi e attraversandosi. Sembrano polli acefali mentre corrono inconsapevoli di essere già morti, tenuti in piedi da una reazione elettrochimica. Ora sentono la gravità dei loro corpi, non percepiscono più la pesantezza dei loro vicini. Incomprensibilmente resto immobile, l’unico gesto che faccio è quello di cercare con lo sguardo il ragazzo con lo zaino. Lo vedo, alla fine. Si è unito anche lui al gruppo dei polli acefali che si lanciano verso il buco nero dove percepiscono al massimo la loro gravità. Ora lo zaino sembra più piccolo, quasi insignificante, confuso nella quantità di altri oggetti, borse, buste, cartelle. Pian piano, la massa comincia a ridursi, a perdere densità, mentre si accalca fuori dal bus, con fare interrogativo. Osservo dal finestrino i primi approdi, che si riversano sul marciapiede mentre discutono. Qualcuno abbozza perfino una risata. Riesco a cogliere una breve cronaca in tutto quel vorticare di accenti diversi, di dialoghi serrati e confusi. Una bambina era saltata giù dall’autobus durante uno stop, e la madre aveva urlato. Un grido per metà disperazione e per metà liberazione. La calma fasulla di quei giorni aveva creato un corto-circuito nella donna: era esplosa per un fatto che normalmente non le avrebbe provocato una reazione simile.

Lentamente, tutti i corpi cominciano a rioccupare lo spazio e la posizione, anche se un po’ tremolanti, scossi dalla loro fragilità. Il ragazzo pachistano si rimette seduto, posando lo zaino leggermente sotto il sedile tenendolo stretto tra le gambe. Ha gli occhi bassi e un po’ spenti ma non trema. Prega, forse. Intorno a sé le caselle sono ancora vuote. 

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