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Il Corriere della Sera e il ministro maglia nera

Creato il 14 giugno 2010 da Massmedili

Va bene, lo confesso. Me ne sono andato in campagna a tagliare l’erba e questo weekend non ho seguito con ansia il dibattito sociopolitico. Ma il lunedì mattina, tornato con i piedi e con la mente per terra, come sempre più spesso accade mi sento avvinto da un pesante senso di irrealtà. Leggo i giornali e non capisco. Non capisco se sono io a essere suonato o loro a essere schizofrenici. E se non lo capisco io che sono 40 anni che ci pasticcio intorno, mi chiedo: che cosa diavolo può capire un normale essere umano?

Partiamo da qualche parte: Giulio Tremonti, potentissimo ministro dell’Economia (se non altro perché sono almeno 15 anni che lo fa) va a parlare a Trento al Festival dell’Economia organizzato da quelli de lavoce.info. Dunque, tndenzialmente, in un ambiente a lui non molto favorevole. Che cosa dice? Fulminanti, incisive, e completamente disorientanti le diverse versioni dei giornali fra sostenitori sfegatati, nemici viscerali e neutri carpiati con avvitamento.

Ceracando di estrapolare, a parte alcune indicazioni di repertorio (una tirata contro l’Europa che va avanti in ordine sparso contro la crisi, suo vecchio cavallo di battaglia) la cosa principale che (sembra) abbia detto è che il nuovo modello positivo di relazioni industriali è quello di Pomigliano d’Arco, dove la Fiat di Marchionne, dopo aver chiuso lo stabilimento siciliano di Termini Imerese, minaccia di chiudre i battenti lasciando a casa alcune migliaia di persone fra dipendenti e indotto se i sindacati non accettano una sostanziale risuzione dei “diritti acquisiti”.

Gli fa eco Dario Di Vico sul Corriere online ( Il lavoro da salvare: Pomigliano e le deroghe ai contratti) che tuona contro le vecchie idee e i “diritti acquisiti” dei sindacati e in particolare della Fiom come una delle ancore che rischiano di far affondare l’Italia.

Strano, perché in prima pagina, sempre sul Corriere, oggi un fondo di Francesco Giavazzi sullo stesso argomento Le Barriere alla Crescita dice tutt’altro, e cioé che in Italia ci sono barriere concrete alla crescita delle imprese e alla mobilità sociale, e che questo è il vero piombo sulle ali delle nostre prossibilità di ripresa. Ovvero un attacco ai diritti acquisiti ma non degli operai, piuttosto delle professioni e dei professionisti che invece sono la categoria che Di Vico (in sintonia con il governo) difende a spada tratta dalle ipotesi di liberalizzazione. 

Se poi si passa all’inserto Economia, sempre del Corriere, si trova un fondo di Massimo Mucchetti La crescita ha bisogno di concorrenza (sempre lo sesso argomento, sempre con le stesse parole) dove si parla senza mezzi termini di “scetticismo nei confronti dei programmi di liberalizzazione” avanzati dal governo obiettando che l’evidente problema italiano di oggi NON è quello di semplificare la creazione di nuove imprese (concordando con quanto sostenuto da Giavazzi) visto che abbiamo il più alto numero di partite IVA d’Europa (e più partite IVA che nel resto della vecchia Europa a 15, aggiungiamo noi) ma di aiutare l’impresa a crescere e a irrobustrsi…

Avete capito quel’è la posizione del Corriere? Io no. Però ammetto di simpatizzare di più con Giavazzi e Mucchetti che con l’altra idea. Non perché non pensi che i sindacati abbiano la loro parte di torti nella caduta progressiva del lavoro industriale e dipendente in Italia, ma a differenza del ministro e del suo sostenitore Di Vico penso anche che:

  1. Non sia tutta e solo colpa dei sindacati;
  2. Reagire alla crisi sopprimendo diritti e tutele è un modo molto rischioso di procedere. Anche perché non mi pare che la spinta alla delocalizzazione si possa combattere solo con turni più massacranti e meno soldi agli operai nostrani (che sono già ampiamente i meno pagati dell’ex Europa a 15). Caso mai un buon punto di partenza è incidere sul costo del lavoro partendo dai fattori strutturali che lo appesantiscono: contributi e tasse. Ovviamente tagliando soprattutto sulle pensioni ai 50/60 enni e abolendo pensioni di anzianità e pensionamenti anticipati per le donne, e su questo credo che ci siano nei sindacati torti enormi. In ogni caso se ne può discutere partendo prima dalle regole generali, e non da un’eccezione lanciata con un piglio da pizzo mafioso, sotanzialmente un ricatto.
  3. Plaudire a un’iniziativa ricattatoria come quella della Fiat a Pomigliano non è fare progresso né il bene del paese. E’ solo la maniera di continuare a darsi delle fortissime botte sulle pudenda (detto da un maschio). La Fiat in pochi anni ha già chiuso due siti produttivi importanti, in Italia: Arese in Lombardia (dove dovevano sorgere un sacco di iniziative industriali cofinanziate dalla Regione e dai privati: s’è visto solo il deserto, in attesa di speculazioni immobiliari) e, appunto, Termini Imerese, stabilimento siciliano che era stato finanziato con soldi pubblici, cioé nostri. Prima o poi chiuderà anche Pomigliano e probabilmente anche Mirafiori, perché costruire automobili in Italia è probabilmente antieconomico (e QUESTO mi sembra il vero problema), mentre nel frattempo si è comperata la Chrysler con il solo vincolo (del Governo USA) di non chiudere stabilimenti a Detroit. Più che un esempio da seguire mi sembra una schifezza, e credo che quando gli italiani si renderanno conto che la Panda è un’auto polacca e Fiat, Alfa e Lancia marchi internazionali che non hanno niente di italiano sarà sempre troppo tardi. 
  4. Nel frattempo (e nelle more della discussione) la Banca d’Italia ci informa che ad aprile il debito pubblico italiano ha toccato nuovi livelli record (alla faccia della durissima manovra così tempestiva), le entrate tributarie sono in caduta libera (cosa che non meraviglia, vista la crisi) e la “strana” crescita abnorme delle retribuzioni (+3,6% rispetto al primo quadrimestre 2009) è semplicemente un effetto ottico dovuto agli incentivi all’esodo. Se non interviene un cambio di passo a fine anno (questo lo aggiungiamo noi, non Bankitalia) il debito pubblico rischia di sfondare quota 150% sul Pil, mandando a pallino i conti di qualsiasi manovra di rientro…

Unica quasi certezza in tutto questo: a Trento il ministro Tremonti si è presentato con una polo a maniche lunghe, blu molto scura o più probabilmente nera. Nostalgia di un passato troppo in fretta dimenticato o premonizione della futura posizione dell’Italia nella (da lui) così disprezzata Europa? In ogni caso suggeriremmo al ministro per il futuro colori più di buon auspicio…


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