Magazine Politica

Il delicato equilibrio nel Golfo: la leadership di Riyad e le nuove sfide regionali

Creato il 27 gennaio 2014 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Il delicato equilibrio nel Golfo: la leadership di Riyad e le nuove sfide regionali

Il trentaquattresimo summit del Consiglio di Cooperazione del Golfo, conclusosi il dodici dicembre scorso, pone un freno alle velleità di Riyad che, dopo i recenti sviluppi geopolitici, aveva visto nella creazione di un’unione regionale l’opportunità di riaffermare la propria supremazia politica. Un’altra occasione perduta per l’Arabia Saudita che, nonostante il recente riavvicinamento con il rivale Qatar, appare sempre più isolata e incapace di svolgere l’ambito ruolo di guida dell’area mediorientale.

Prove di forza all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo

L’ascesa iraniana, consolidatasi con la recente firma dell’accordo sul nucleare, il logorarsi dei rapporti con la leadership statunitense e la guerra di successione interna hanno obbligato il gigante saudita a correre ai ripari, cercando sostegno nei tradizionali alleati. Le ambizioni degli Al Saud, più volte arginate dall’abilità diplomatica qatariota, questa volta si infrangono contro la netta opposizione dell’Oman che, in occasione del recente meeting sulla sicurezza regionale svoltosi a Manama in Bahrein, si è dichiarato pronto a «ritirarsi dal Consiglio di cooperazione del Golfo» in caso di successo degli sforzi per istituire un’«unione» tra i sei Paesi. Una doccia fredda per l’Arabia Saudita che, dopo aver raccolto l’adesione di Kuwait e Qatar, vede sfumare la sua proposta e la prospettiva di rafforzare i legami con le potenze vicine per porre un freno all’avanzata del nemico iraniano. Tuttavia il rifiuto omanita, espresso dalla laconica affermazione del ministro degli affari esteri Youssef Bin Alawi, rispecchia l’autonomia decisionale con cui il sultanato sta gestendo le proprie relazioni internazionali.

Nel costante tentativo di sfuggire alla manus longa degli Al Saud, l’Oman, grazie alla lungimiranza della propria classe dirigente e del Sultano Qabus ibn Said Al Said, ha intrapreso una politica estera audace, spesso in aperto contrasto con i dettami di Riyad. La ferma opposizione alla creazione di un’unione monetaria all’interno del CCG, la mancata partecipazione all’azione congiunta – guidata dall’Arabia Saudita – contro le rivolte popolari in Bahrein nel 2012, l’approccio conciliatore nei confronti della politica iraniana sono solo alcuni degli esempi dell’indipendenza delle autorità omanite. Quest’approccio ha permesso al Sultano Qabus di ritagliarsi un ruolo di mediatore super partes che si è recentemente consolidato con il successo dei suoi sforzi di conciliazione tra Tehran e Washington. Nella contesa geopolitica tra Arabia Saudita e Iran, l’Oman da un lato si è posto come fedele alleato del vicino saudita, e dall’altro ha offerto all’Iran una via di fuga dall’isolamento internazionale, attraverso una solida partnership commerciale.

Forte della tradizione imperiale e della propria strategica posizione, l’Oman è, infatti, riuscito ad intrattenere un rapporto relativamente rilassato con il governo iraniano, in netto contrasto con l’atteggiamento dell’Arabia Saudita, caratterizzato invece da toni aspri e poco concilianti. I recenti sviluppi, con la riabilitazione internazionale dell’Iran, sembrano aver dato ragione alla lungimiranza della diplomazia omanita. Così mentre la maggior parte degli Stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Kuwait e Bahrein in particolare), temendo l’avanzata iraniana, aveva accolto con favore la proposta di unione formulata dai sauditi, Musqat ha potuto declinare l’invito e rimanere in bilico tra i due nemici. Sebbene la decisione omanita di non aderire all’Unione non sia una novità – simile era stata la posizione adottata nel 2011- essa arriva in un momento particolarmente delicato per gli Al Saud. Nonostante l’enorme vantaggio economico e territoriale che detiene nei confronti degli altri Paesi del CCG, infatti, la leadership di re Abdullah è alle prese con una serie di sfide che stanno mettendo a dura prova la sua abilità strategica, e rischiano di sconvolgere i fragili equilibri regionali.

Ryiad, Teheran e l’incognita statunitense

Sul piano internazionale, il successo negoziale di Ginevra e l’implicita legittimazione del nuovo governo iraniano guidato da Ruhani, rappresentano senza dubbio il più grande attentato alla stabilità politica dell’area che, dopo gli sconvolgimenti dettati dalla primavera araba, era, seppur indirettamente, controllata dall’Arabia Saudita. Come contropartita del suo impegno a interrompere l’arricchimento dell’uranio sopra il 5% e a neutralizzare le sue riserve di uranio arricchito al 20%, l’Iran ha ottenuto la sospensione delle sanzioni economiche che gravavano pesantemente sulla sua capacità di sviluppo. Uscita dall’isolamento economico e politico, la potenza sciita è oggi in grado di giocare un ruolo importante negli scenari più critici del Medio Oriente, dall’Egitto alla Siria, bilanciando l’azione della compagine sunnita capeggiata da Riyad. Tuttavia, ciò che sembra preoccupare maggiormente l’intelligence saudita è il recente riavvicinamento tra Tehran e Washington, una minaccia concreta per la propria intesa con l’alleato statunitense.

La comune ostilità verso il nemico iraniano, che costituiva uno dei punti di forza dell’amicizia pluridecennale, è ora motivo di tensione tra i due Paesi. Inoltre, la crescente autonomia energetica americana (dovuta all’aumento della produzione di gas di scisto) e il cambio di direzione della politica estera di Obama, rischiano di compromettere in maniera definitiva l’accordo su cui poggia l’intesa con gli Al Saud. Con il venir meno di queste premesse, la formula “sicurezza in cambio di petrolio”, frutto del pragmatismo strategico che aveva permesso finora alle due potenze di superare le enormi divergenze ideologiche, non è più sufficiente a garantire un reciproco sostegno. La volontà di affrancare gli Stati del CCG dalla protezione militare statunitense, espressa dalla delegazione saudita nei giorni precedenti al summit kuwaitiano, è una chiara espressione del disappunto di Riyad nei confronti della condotta di Washington. Sebbene il re saudita non consideri esaurito il rapporto d’amicizia che dal 1945 lo lega agli americani, il mutamento delle circostanze impone ad entrambi una profonda revisione della proprie relazioni.

Arabia Saudita versus Qatar: la proxywar per l’egemonia regionale

Ad indebolire ulteriormente la posizione internazionale della monarchia saudita c’è poi la lotta contro il Qatar per la conquista della supremazia regionale: una vera e propria guerra per procura che dal 2011 viene combattuta sui territori sconvolti dalle rivoluzioni della primavera araba. A partire dal 1995, quando un colpo di stato ha deposto la leadership qatariota vicina a Riyad, l’emirato, sotto la guida di Hamad bin Khalifah Al Thani, ha intrapreso un percorso di trasformazione politica che lo ha posto in concorrenza diretta con la monarchia saudita. Complice l’ingente disponibilità economica, derivata dalla scoperta di numerosi giacimenti di gas, il Qatar in pochi anni si è creato un curriculum diplomatico di tutto vanto, intervenendo come mediatore in diverse zone calde dell’area: dalla crisi in Darfur, a quella libanese, dal conflitto etiope- eritreo a quello israelo-palestinese.

Così allo scoppio delle rivolte arabe il Paese rappresentava già una piccola potenza affermata e stimata, in grado di esercitare un’influenza di gran lunga maggiore rispetto al suo potenziale territoriale. Sfruttando abilmente la retorica democratica, l’emiro Al Thani si è immediatamente eretto a paladino degli insorti che in Egitto, Tunisia, Siria, Libia chiedevano la cacciata dei dittatori e maggiore libertà. Dopo aver offerto sostegno finanziario e mediatico – tramite la rete di Al-Jazeera – ai ribelli, egli ha colto l’occasione per inserirsi nelle lotte intestine che sono seguite alla caduta dei grandi dittatori e sfruttare la sua intesa con i rappresentanti della Fratellanza Musulmana al fine di imporre la propria influenza in tutto il Medio Oriente, accaparrarsi le risorse ed il controllo di centri di potere strategico. Particolarmente attivo in Tunisia, il Qatar ha messo in atto un piano d’investimento di 130 miliardi di dollari in cinque anni, divenendo il principale interlocutore economico dei Paesi nordafricani in grado di competere e talvolta soppiantare l’azione dell’Unione Europea.

Dal canto suo, l’Arabia Saudita, allarmata dal diffondersi del contagio rivoluzionario all’interno dei suoi confini, ha avuto una reazione meno pronta ma ugualmente decisa. I due Paesi pur rimanendo uniti contro l’asse sciita capeggiata dall’Iran, hanno quindi continuato a sfidarsi per il titolo di rappresentante esclusivo del Wahhabismo e di portavoce della compagine sunnita. La tattica interventista di Doha ha dato i suoi frutti con l’affermazione in tutto il Nord Africa (Tunisia, Marocco, Egitto) dei Fratelli Musulmani, considerati da Riyad un minaccioso avversario in grado di sottrargli il monopolio ideologico dell’Islam Politico. Tuttavia è sul campo di battaglia egiziano che queste divergenza tra Arabia Saudita e Qatar ha assunto toni esasperati. Mentre l’emirato, insieme alla Turchia, ha dispensato un grande aiuto diplomatico e finanziario ai Fratelli Musulmani, durante la presidenza di Muhammad Morsi, similmente a quanto era accaduto in passato con altri gruppi islamisti in Siria e prima ancora in Libia, la monarchia saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno salutato con freddezza il nuovo governo. Non nascondendo le proprie simpatie per il vecchio ordine autoritario, Riyad ha aspramente contestato l’appoggio americano alle rivolte in Egitto, accusando l’alleato occidentale di utilizzare la Fratellanza Musulmana per controllare più strettamente il mondo islamico e usarlo per destabilizzare la Cina, la Russia e le regioni islamiche dell’Asia centrale.

Ma proprio quando il Qatar sembrava essere riuscito a sopraffare il rivale saudita, quest’ultimo, con una mossa spregiudicata, ha favorito il colpo di stato militare che ha portato alla destituzione del presidente Morsi. Nel duplice tentativo di indebolire l’influenza americana e qatariota in Egitto, re Abdullah ha poi immediatamente approvato 4 miliardi di dollari in aiuti alla giunta militare per sostenere la disperata economia egiziana ed affrancarla dalle dure condizioni imposte dal FMI. La tattica saudita che ha inferto un duro colpo al Qatar ed ai Fratelli Musulmani egiziani – ufficialmente messi al bando – non è però priva di effetti collaterali. Oltre ai rapporti con gli Stati Uniti, il sostegno al generale al-Sisi è costato alla monarchia saudita l’amicizia con la leadership turca di Erdogan, sostenitrice dei Fratelli Musulmani, che ricopriva un ruolo prezioso nella lotta contro il regime di Bashar Al Assad.

Il lato oscuro dell’azione diplomatica saudita

In netta opposizione con la “soft diplomacy” qatariota, gli Al Saud si sono contraddistinti per una condotta più frontale e diretta, contrassegnata da gesti eclatanti. Esemplare a tal proposito è la scelta di manifestare il proprio dissenso nei confronti della politica mediorientale di Obama attraverso il clamoroso rifiuto del seggio all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’ONU; o ancora la recente, seppur cauta, apertura verso Israele in risposta al riallineamento turco sull’asse Iran-Siria, avvenuto dopo il colpo di stato egiziano. L’attivismo diplomatico che negli ultimi mesi ha contraddistinto il governo saudita, non è però sempre frutto di scelte oculate o di tattiche lungimiranti, quanto piuttosto espressione dell’instabilità interna del regno. Vessata da feroci lotte intestine per la successione dinastica, la monarchia rischia, con la fine degli Al Saud, di venir destabilizzata da un lungo processo di transizione.

Le delicate condizioni di salute di re Abdullah hanno infatti scatenato una vera e propria guerra tra le due principali fazioni contendenti, la prima che fa capo al comandante dell’intelligence, il principe Bandar, e l’altra guidata dal principe Ahmed, il più giovane rappresentante del clan Soudairi. La politica estera è divenuto il campo di battaglia preferito da Bandar che, attraverso la sua condotta spregiudicata, sta cercando di usare tutta la sua influenza per convincere l’attuale monarca a nominare un nuovo erede, fedele al suo clan. La condotta internazionale saudita è quindi divenuta lo specchio di questa corsa al potere, che rischia di mietere numerose vittime fuori e dentro i confini del regno.

L’instabilità politica del Paese più influente all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo ha una pesante ricaduta per le dinamiche dell’intera area mediorientale. In particolar modo, dopo la caduta dei tradizionali centri di potere del mondo arabo, Baghdad, Damasco e Il Cairo, il CCG, sotto la guida di Riyad, è divenuto il fulcro dell’attività politica regionale. Le decisioni saudite e il suo posizionamento nello scacchiere mondiale saranno determinanti per definire il futuro democratico dei Paesi del Nord Africa e l’assetto geopolitico regionale.

Nonostante il fallimento dei progetti di Unione, il CCG ha intrapreso un cammino verso una maggiore coesione militare grazie all’accordo per un commando militare congiunto, raggiunto al vertice di Kuwait city. Con il 40% delle riserve petrolifere mondiali, il 25% di quelle di gas, quest’entità regionale ha certamente la possibilità di esercitare un ampio potere economico ma soprattutto politico. E la monarchia saudita è estremamente determinata a sfruttare questo potenziale contro l’ascesa della compagine sciita. Data la mancanza di coesione all’interno del CCG, la precaria situazione politica del regno saudita, e l’oneroso dispendio di risorse nei Paesi in transizione – Egitto in particolare – c’è un alto rischio che, per bloccare l’avanzata iraniana, Riad giochi la carta della guerra civile già utilizzata in Iraq, Yemen e Siria. Esacerbando tensioni interne appoggiando i gruppi estremisti l’Arabia Saudita finirebbe però non solo per aumentare ulteriormente l’insicurezza regionale, ma anche per mettere in pericolo la sua stessa sopravvivenza.

Il duemilaquattordici si prospetta, dunque, un anno particolarmente difficile per la leadership saudita che, nonostante le turbolenze interne, dovrà impegnarsi a risolvere il rebus siriano e la perigliosa questione economica egiziana, sotto l’ombra dell’avanzata iraniana.


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :