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Il figlio di Philipp Meyer

Creato il 31 marzo 2014 da Tiziana Zita @Cletterarie

Walker EvansDopo aver finito di leggere Il figlio, il nuovo romanzo di Philipp Meyer appena uscito per Einaudi, sono rimasto tre giorni (quasi) senza leggere altro. L’ho letto in dieci giorni circa e un po’ mi sono sentito in colpa. Philipp Meyer l’ha scritto in cinque anni, ha studiato persino la lingua Comanche e alcuni passaggi li ha riscritti anche cento volte. Ma una tale velocità di lettura rende onore alla storia e all’autore. Cinque sono anche gli anni trascorsi dal suo romanzo d’esordio, Ruggine americana, esplorazione senza veli e ipocrisie, per non dire spietata, della rovina dell’impero industriale statunitense. Acciaierie chiuse, ridotte in macerie; città fantasma; disoccupati cronici che trascinano la vita tra pub e bravate; giovani che cercano una via di fuga per scrollarsi di dosso una sorte che pare sempre nelle mani altrui, capaci ancora di sognare, sì, ma non di scegliere quando si presenta l’occasione della vita. La morte del sogno americano, insomma.

Con Il figlio, Meyer ci offre la storia della nascita di quello stesso impero e lo fa con la crudezza con la quale Erode presentò a Salomè la testa di Giovanni il Battista. E non lo scrivo in senso figurato. Sangue e carne, sopraffazione e ferocia: ecco come i vincitori hanno fatto la storia.

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Siamo nel Texas, quello della frontiera e poi quello degli allevamenti sterminati e delle industrie petrolifere. Gli spagnoli spazzarono via tutti gli indios che incontrarono nella loro follia conquistatrice, poi furono gli Apache Lipan a spezzare la schiena ai vecchi conquistadores per essere a loro volta ricacciati verso il mare dai Comanche. I Comanche annientarono l’esercito spagnolo e trasformarono il Messico in un mercato di schiavi. La loro azione era precisa e spietata, quasi dogmatica: trucidare e uccidere gli uomini, violentare e uccidere le donne, prendere i bambini come schiavi o adottarli. Poi arrivarono gli anglos, i bianchi. Non si comportarono diversamente coi Comanche e ogni altra nazione di pellerossa. Con la terra e i bisonti. La storia è ben nota.
Questo racconto lo troviamo nella seconda pagina del romanzo e chi lo pronuncia in prima persona è uno dei protagonisti: Eli McCullough da tutti chiamato il Colonnello. Rispettato e odiato allo stesso tempo, capostipite di una famiglia le cui vicende, dalla sua nascita – 1836 – a oggi, sono lo specchio della storia americana.

Bambino di otto anni, Eli vede i Comanche attaccare e saccheggiare la loro casa in assenza del padre. Sotto i suoi occhi la madre viene stuprata e poi uccisa, così la sorella. Lui e il fratello vengono portati via ma il fratello è troppo debole per adattarsi al lungo viaggio che li porterà sino all’accampamento comanche. Eli è già ciò che diventerà: calcolatore, sa da che parte stare per salvare la pelle. Impara in fretta ma ha pazienza. Diventa un Comanche in tutto e per tutto, e non cesserà mai di esserlo. Ritorna tra i bianchi che ha sedici anni ed è già un uomo fatto. Dai Comanche ha imparato che se vuoi sopravvivere non puoi pensare solo a te stesso, ma prima di tutto agli altri. Eppure non puoi fidarti che di te stesso.

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Grazie ai traffici illeciti durante la Guerra Civile, si arricchisce al punto da diventare un patrón. Compra terre e mandrie, allarga le proprietà sulla pelle dei messicani. Non dimentica la bellezza del tempo trascorso coi Comanche, eppure è così abile da adattarsi al nuovo che avanza e non avrà scrupoli a passare sul cadavere di chiunque lo ostacoli nell’accumulare milioni di dollari. Dapprima con bovini e cavalli, poi col nuovo oro, quello nero. Una vera macchina da soldi. Vivrà a lungo ma circondato da figli e nipoti che disprezza per la loro mollezza. Non gli importa sapere se sono così perché loro non hanno dovuto lottare per conquistarsi un posto al sole, o per qualche sua colpa. In fondo, della famiglia non gli è mai importato granché.
C’è solo una persona che apprezza: la pronipote Jeannie. Perché è come lui. E non a caso sarà proprio lei che prenderà in mano le redini dell’impero del Colonnello, disprezzando a sua volta un padre, dedito alle lettere piuttosto che agli affari.

Jeannie impara a essere scaltra, a fiutare l’affare che le permetterà di accumulare dollari su dollari, ossessionata dalla volontà di dimostrare a uomini altrettanto duri di essere alla

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loro altezza. Investirà in pozzi petroliferi, incontrerà l’amore, capirà che il nuovo paradiso del petrolio è dall’altra parte del mondo, ma esiterà e a ragione, perché con la crisi del petrolio in Arabia il mercato crollerà. Avrà tre figli, uno peggiore dell’altro, rammolliti dal denaro che sembra eterno, inconcludenti, incapaci di sognare e di costruire la loro esistenza. Non cesserà di investire in immobili, banche, assicurazioni. Guarderà in faccia i fantasmi del passato, ne avrà paura, vera, perché quei fantasmi le ricorderanno tutto il sangue che è stato versato in cambio di denaro e potere. Le ricorderanno chi fosse veramente il Colonnello e ciò che è lei stessa. Le indicheranno quanto sia sottile la linea di confine tra eroismo e ferocia. Finirà per rimanere sola, ma l’aveva sempre saputo. Jeannie traghetterà l’impero costruito dal bisnonno nel nuovo secolo e verso l’inevitabile nemesi. Perché queste sono le regole del gioco. E come il Colonnello, lei non se n’è mai voluta tirar fuori.

Philipp Meyer ha il coraggio di demitizzare la storia e i suoi protagonisti. Nessuno si salva. Nessuno è vinto o vincitore. Come Ruggine americana, anche questo è un romanzo politically incorrect, per niente ideologico, scritto con un sapiente dosaggio di ruvidezza e poesia. Con un ritmo sempre teso sulla corda, un plot che non è mai scontato, anche quando racconta vicende note attraverso la storia ufficiale, romanzi e film, Meyer non lo si può paragonare a nessun altro scrittore. Soprattutto perché ha la volontà e la capacità di guardare dentro la storia fino in fondo, di fare a pezzi falsi eroismi e ipocrisie, di mettere in luce quelle verità nascoste perché così fa comodo a chi crede di essere padrone del mondo e maschera il prezzo che altri hanno pagato per le sue conquiste.
Spero di non dover attendere altri cinque anni per leggere un nuovo romanzo di Meyer. Ma se così fosse sarò paziente come un Comanche che segue le tracce del bisonte. Fosse anche l’ultimo.


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