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Il mercato dell’arte: rifiuto, rifugio, ribellione

Creato il 21 novembre 2013 da Thefreak @TheFreak_ITA

Di arte, per fortuna, si parla ancora molto.

Conosciamo la vita degli artisti che più ci appassionano e di alcuni ricordiamo anche famosi aneddoti.

Van Gogh si tagliò un orecchio, la moglie di Modigliani si suicidò, Renoir comprò una villa faraonica vendendo un solo disegno.

Di mercanti e mercato dell’arte, invece, non si è mai detto molto, non si è mai detto tutto.

Alan Jones ha raccontato la storia del mercante Leo Castelli. Lo ha dipinto come uomo distinto, affascinante, di grande intuito, di poche parole.

Non ha raccontato però, e come lui molti altri, quali meccanismi regolino il feroce mercato dell’arte.

A quali patti deve scendere un pittore per poter contare sulla fiducia e sull’impegno di un Leo Castelli o di un Andrea Vaccaro? A cosa deve veramente rinunciare?

julian-beever 2

Confusa da tutti questi interrogativi, ho pensato a Julian Beever e la sua immagine mi ha strappato un sorriso. Nato in Inghilterra negli anni sessanta, Beever ha coltivato sin da giovanissimo il sogno di girare il mondo. Così, è diventato un artista di strada. In Italia sarebbe definito un “madonnaro”, ma Beever è molto più di questo. Utilizzando la tecnica “trompe-l’oeil”, l’artista riesce a creare delle immagini con un effetto prospettico talmente suggestivo che l’osservatore ha letteralmente la sensazione di cadere nei suoi disegni.

Draghi, fanciulli, immagini sacre: Beever ha dato forma a tutto sui marciapiedi delle strade del mondo.

Lo ha fatto senza chiedere il permesso, senza chiedere l’approvazione di questo o quel mercante.

Si è sperimentato senza preoccuparsi di cosa il mondo di Christie’s o di Sotheby’s ne avrebbe pensato, di quanto sarebbe stata quotata la sua prossima opera.

Galleristi di tutto il mondo hanno invitato Beever a barattare il marciapiede per un lussuoso salotto, e lui ha risposto di no. Non per moralismo, né per presa di posizione.

Lo ha fatto solo perché esistono degli artisti che credono che alla domanda: “A cosa si deve rinunciare?” si debba rispondere: “A nulla”.

Di Adriana Lagioia


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