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Il mestiere di vivere (Pavese)

Creato il 31 agosto 2015 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua

Ancora Pavese. Lo so, ne ho parlato solo pochi giorni fa, in occasione dell'anniversario della sua morte, ma stavolta voglio dedicarmi specificamente alla recensione del suo diario, pubblicato come I l mestiere di vivere. Esso raccoglie i pensieri dell'autore dall'ottobre del 1935 al 1950, con una brusca interruzione al 18 agosto, nove giorni prima del suicidio.

Il mestiere di vivere (Pavese)

Non si tratta di un libro di facile lettura, perché di facile, nella vita di Cesare Pavese, non ci fu nulla. Ma il suo non è un diario strettamente personale, in cui vengano rievocati episodi della vita familiare o con gli amici (anche se l'editore ha omesso, per questioni di riservatezza, alcuni passi con esplicite menzioni di alcuni personaggi). Si tratta, invece, di un memoriale filosofico-letterario, che ha un precedente soltanto nello Zibaldone di Giacomo Leopardi, autore che con Pavese ha molto in comune anche in termini di contenuti, e che spesso viene ricordato anche in questo testo. Infatti entrambe sono letture impegnative, complesse, dettate dall'urgenza di raccontare l'itinerario del proprio pensiero in un intrecciarsi di elementi eterogenei.
Nella pagine di Pavese rientrano considerazioni generali sulla vita, la morte, il suicidio, il dolore, riflessioni sulla letteratura (in particolare quella americana e quella decadente francese), sulla divinità, sulla giovinezza e violenti sfoghi contro donne mai nominate, che solo negli ultimi mesi, probabilmente per la passione nei confronti di Constance Dowling (che resterà ben presto delusa) lasciano il posto ad un'inedita delicatezza.
Ma Il mestiere di vivere è prima di tutto un diario letterario. Cesare Pavese si interroga continuamente sulla funzione della letteratura, sulle scelte contenutistiche e stilistiche, sulla filosofia che le sorregge, sulla creazione di un'opera poetica unitaria e poi sulla scelta della dialettica, da cui nasceranno quei Dialoghi con Leucò nella cui prima pagina l'autore vergherà il suo messaggio di addio al mondo.
Ma questo intreccio fra arte e vita non ci deve stupire, in quanto è una caratteristica generale della letteratura e, inoltre, è intrinseca allo Zibaldone leopardiano, che certamente Pavese aveva presente. Dare un senso all'arte è, per lo scrittore piemontese, operazione essenziale per dare un senso alla vita, se, come lui stesso dichiara il 10 novembre 1938, "La letteratura è una difesa contro le offese della vita".
In tal senso diventa fondamentale dare equilibrio e compattezza alle opere, perché l'arte nasce dal tormento e da tendenze laceranti, ma ha, allo stesso tempo, la capacità di ricomporli, come si vede in questa coppia di aforismi:

Gli uomini che hanno una tempestosa vita interiore e non cercano sfogo nei discorsi o nella scrittura sono semplicemente uomini che non hanno una tempestosa vita interiore. (19 settembre 1938)
Tutta l'arte è un problema di equilibrio fra due opposti. (14 dicembre 1939)

Il mestiere di vivere (Pavese)L'arte è ricomposizione, laddove la vita tende a rendere tutto plurale e, quindi, incontrollabile. Il magma della vita, i suoi rivolgimenti, i sussulti che sembrano far emergere soltanto il dolore sono per Pavese fonte di angoscia, mentre l'arte, che li sa ricondurre all'eterno e all'assoluto, offre la pace e la serenità, poiché "Creare un'opera è trasformare in assoluti il suo tempo e il suo spazio" (26 febbraio 1940). L'arte - la letteratura nello specifico di Pavese - ha una portata totalizzante e unificante che la vita nega, per questo è tanto preziosa.
Ma qual è, secondo Pavese, la chiave per fare della letteratura uno strumento adatto a spiegare la vita? Già prima di leggere questo diario avrei dato la risposta, scritta in ogni manuale che minimamente affronti la trattazione di questo autore. Ma solo leggendo le parole di Pavese e non quelle di un suo interprete ho capito realmente cosa significasse. Il cosiddetto Realismo mitico resta un'etichetta su un contenitore vuoto, se non si ascolta la voce dell'autore.

Di ogni scrittore si può dir mitica quell'immagine centrale, formalmente inconfondibile, cui la sua fantasia tende sempre a tornare e che più lo scalda. [...] Mitica è quest'immagine in quanto lo scrittore vi torna come a qualcosa di unico, che simboleggia tutta la sua esperienza. (15 settembre 1943)

Il mito è un'immagine dotata del potere della ricomposizione: personificando il concetto, si potrebbe dire che il mito è un restauratore, che raccoglie i materiali sconnessi e dilaniati dalla vita e dal tempo per dare loro un senso. Pensandoci bene, non esiste interpretazione che meglio possa descrivere l'irreversibile rapporto fra vita e morte meglio di quanto faccia l'Orfeo de L'inconsolabile. E il dialogo è la sede in cui si spiega e si svolge il mito, quindi in cui emerge il senso dell'esperienza, motivo per cui sono forse i Dialoghi con Leucò l'opera in cui Pavese più si riconosceva (ma immagini mitiche - sebbene di una mitologia diversa - sono ricorrenti anche nei romanzi).
Non sfuggirà in questo ragionamento l' impronta socratica del ragionamento. Il dialogo permette di arrivare alla verità perché si avvale della forza comunicativa del mito. A questo concetto è riconducibile quello della reminescenza, a sua volta connesso a quello della meraviglia. Entrambi erano, nella filosofia socratica (nella veste in cui ce la presenta Platone), strumenti di conoscenza, e Pavese non tarda a trasmetterci la sa adesione a questa visione della gnoseologia:

Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla - ora soltanto - per la prima volta. (28 gennaio 1942)
Lo stupore è la molla di ogni scoperta. Infatti, esso è commozione davanti all'irrazionale. (8 febbraio 1944)

Questo secondo aforisma mi fa chiudere il triangolo costituito da Pavese, Platone e Leopardi, anch'egli, guarda caso, autore di dialoghi, le Operette morali (ma delle consonanze parleremo in futuro). Anche il poeta recanatese faceva infatti della meraviglia la chiave per aprirsi al mondo e del ricordo l'unica fonte di piacere di fronte all'opera distruttiva del tempo; anche Giacomo Leopardi osservava la vita da lontano, creando immagini a loro modo mitiche, gli Idilli, per spiegarla, anche lui identificava il piacere con l'aspettativa della speranza nascente col mattino o al principiare di una nuova attività.
Ma per Pavese, infine anche la meraviglia e il piacere dell'aspettativa si spegne, quando, nelle ultime pagine del suo diario, il 16 maggio 1950, scrive "Adesso il dolore invade anche il mattino".

Non dovrà sorprendermi, in qualche mattina di nebbia e di sole, il pensiero che quanto ho avuto è stato un dono, un grande dono? Che dal nulla dei miei padri, da quell'ostile nulla, sono pure sgorgato e cresciuto io solo, con tutte le mie viltà e le mie glorie, e, a fatica e durezza, scampando a ogni sorta di rischi, sono giunto a quest'oggi, robusto e concreto, incontrando lei sola, altro miracolo del nulla del caso? E che quanto ho goduto e sofferto con lei non è stato che un dono, un grande dono? (29 novembre 1937)

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