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Il tempo dell’uomo secondo Ratzinger

Creato il 25 febbraio 2013 da Casarrubea
Papa Ratzinger

Papa Ratzinger

Quando fu eletto papa, diciamo la verità, almeno noi che ci professiamo laici e di sinistra, avevamo la puzza sotto il naso. Gliene abbiamo dette di tutti i colori. Lo chiamavamo il pastore tedesco, il duro, il Rottweiler di Dio. E dicevamo pure che era stato un nazista solo perché nel 1941, a quattordici anni, lo avevano fatto entrare nella gioventù nazista, dandogli una divisa. Quando tutti in Italia erano fascisti e in Germania non c’era stata persona che non avesse avuto il Mein Kampf  di Hitler sul comodino. Diciamo pure che la stessa cosa non era successa con Giovanni Paolo II, che appariva a tutti un simpatico prete operaio, che dopo la sua nomina sul trono di Pietro, aveva fatto le umane e divine cose per finanziare, con i fondi dello Ior, o chissà come procurati, il movimento politico e sindacale di Solidarnosc di Lech Walesa, il primo colpo di ariete al potere sovietico nella Polonia di Jaruzelski.

Le cosiddette dimissioni di Benedetto XVI, però, mi confermano in una valutazione che specialmente negli ultimi tempi avevo cominciato a formulare. E’ stato un papa umile, molto più fragile di tutti gli altri papi che lo hanno preceduto. Ha saputo reggere per ben otto anni le sorti della Chiesa cattolica, vivendo in un covo di nemici, fino agli scandali dei preti pedofili e del maggiordomo del papa Paolo Gabriele. Un chiaro segnale, quest’ultimo, di quanto e come qualcuno nella sacre stanze, cercasse di frugare tra le cose del papa, per carprirne volontà e segreti. Ci dice che chiunque avrebbe potuto trovare in qualsiasi momento le più svariate strade per incastrare il vertice della Chiesa cattolica universale, per usarne gli effetti per fatti personali o di gruppi e lobbies ben precisi, da sempre attorno e dentro il Vaticano con i più oscuri intenti. Non ultimo quello di entrare nel giro dei servizi di intelligence che, come è noto, hanno un’estensione planetaria.

Ieri all’Angelus questo raffinato teologo che ha sempre fatto della fede un punto di orientamento cardinale per sé e per tutti gli uomini tanto da essere tenuto in gfrandissima considerazione dal suo predecessore, ci ha dato l’ultima chiave di lettura del senso che ha la sua “dimissione” dal trono pontificio. L’attacco è il racconto del vangelo della seconda domenica di quaresima. E cioè della trasfigurazione di Cristo durante la preghiera, il “ritiro spirituale” ”su un alto monte”, in compagnia di Pietro, Giacomo e Giovanni. Un contatto di Cristo con il Padre, prima della sua crocifissione.

Interpretato in chiave teologica questo riferimento lascia presagire una condizione personale, un vissuto intimo e una realtà collettiva della Chiesa cattolica che in qualche modo accosta il papa a Cristo: “Questo è il mio figlio, l’eletto, ascoltatelo”, dice il Padre al gruppetto di astanti sul monte Tabor, dove sono svelati lo splendore della divinità e la via da percorrere per arrivarci: la sofferenza e la croce. E qui, come Cristo, anche il papa dice di voler salire. I farisei avrebbero gridato alla bestemmia, ma è la fede ad acquistare tutta la sua forza di verità in questo papa imprevisto e spregiudicato, mediante il “primato della preghiera” che dà senso all’essere cristiano. La sua vita è infatti “un continuo salire al monte”. Un distacco che Benedetto XVI sente di aver raggiunto, compiuto, a un livello intimo e personale: “questa parola di Dio la sento in modo particolare rivolta a me, in questo momento della mia vita […] il Signore mi invita a ‘salire’ sul monte, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione”. E’ la consapevolezza di una nuova e inedita missione, che è tutt’altra cosa dalle dimissioni da una funzione.

Non abbiamo motivo di ritenere che nell’affermazione del papa ci sia una finzione o un rifiuto, un’abdicazione. C’è semmai un volere lasciare lo spazio necessario ad altri più giovani e più energici per muovere la Chiesa verso nuovi orizzonti, più adeguati ai bisogni di oggi. Un livello, questo, che non è proprio quello della meditazione o della contemplazione. Si prospettano, quindi, secondo la concezione di Ratzinger, due tempi nella parabola terrena del papato. Durante il primo è l’azione a prevalere. Durante il secondo è, al contrario, la meditazione a dare significato all’intera parabola indicata nella sua essenzialità lungo le fasi evolutive dell’essere cristiani.

Il gesto di Ratzinger, dunque, stando a una lettura vicina alla sua teologia, appare innovativo e assolutamente inedito. Non ha nulla a che fare con tutti gli altri papi che nel passato della storia della Santa Sede, per varie cause di forza maggiore si sono dimessi o sono stati costretti a farlo. A voler fare una valutazione meno istintiva di quelle correnti, la personalità di un grande teologo prevale su altre considerazioni assai più marginali (scandali, lobbies di potere, corruzione degli uffici del Vaticano, ecc.). Semmai  esse vengono assunte con il peso di una croce di cui caricarsi, avendo davanti a sé la bussola della fede, della solitudine, della contemplazione. Valori che il mondo ha smarrito. Almeno tutto questo è possibile vedere nel coraggioso gesto del papa. Che altri attorno a lui la pensino allo stesso modo è improbabile.

Comunque il gesto del papa non segna la sua fine, ma un periodo di elaborazione di e nuova attività teologica. Dopo un periodo di soggiorno a Castel Gandolfo, residenza estiva dei papi, egli andrà a vivere in un convento di clausura, il ”Mater Ecclesiae”, lungo le mura che Leone IV fece costruire nel Nono secolo per proteggere la Basilica di San Pietro dall’attacco dei Saraceni.

Giuseppe Casarrubea

Lettura collegata:

http://casarrubea.wordpress.com/2013/02/13/benedetto-xvi-e-il-gran-rifiuto/


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