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Il treno va a Mosca, incontro con Federico Ferrone e Michele Manzolini

Creato il 04 dicembre 2013 da Oggialcinemanet @oggialcinema

4 dicembre 2013 

Raccontare l’utopia, la voglia sfrenata, contagiosa e collettiva di credere in un ideale. Partono da qui i giovani registi Federico Ferrone e Michele Manzolini per firmare a quattro mani un lavoro, Il treno va a Mosca, che si rifiutano di definire documentario: “Per noi è un vero e proprio film”, ci raccontano. “Anche perchè c’è un protagonista, c’è lo sviluppo di una storia, c’è il racconto di un sogno e il suo epilogo”.

Da dove siete partiti per raccontare la storia di Sauro, il barbiere di Alfonsine?
Dal suo fornitissimo archivio privato di filmati amatoriali, e da altri due fondi. In totale abbiamo avuto tre fondi di ricerca tra amici, parenti, e abitanti di Alfonsine, e alla fine visionato tantissimi filmati amatoriali, un materiale di girato tra le trenta e le cinquanta ore.

Un materiale che vi garantirebbe quanto meno un sequel, no?
Tanti altri film, se consideriamo l’ampiezza dell’archivio di film e diapositive. Abbiamo ragionato su dieci film diversi, alla fine abbiamo deciso di compattare tutto sull’esuberanza forte di una persona particolare. E deciso di rimanere leggeri, c’erano anche scene di pestaggi a Mosca, noi ci siamo limitati a raccontare le impressioni più leggere. Il dilemma loro di fatto era tornare a casa, mostrare le immagini e la realtà.

Avete mai pensato invece di usare i filmati solo come materiale di repertorio, come inserti, come spunti per farne un film di fiction?
No, ma non escludiamo di tornare a farlo. Certo, costerebbe parecchio. Ma forse potrebbe funzionare, perchè no.

Però siete partiti direttamente dall’idea di realizzare un documentario.
In effetti non lo riteniamo un vero e proprio documentario, è un’opera con un personaggio, una storia, uno sviluppo, una caduta e un ritorno. Dunque un film in piena regola.

Il treno va a Mosca

Il treno va a Mosca

Vi aspettavate di essere selezionati in concorso a un festival?
No, proprio perchè non è un film comune: ci ha confortato il fatto che Virzì e il suo staff l’abbiano selezionato al Torino Film Fest nell’idea che potesse essere un film universale.

Avete pensato, in fase di realizzazione, a un target di riferimento? Magari le generazioni un po’ “nostalgiche”?
No, non abbiamo mai avuto un pubblico di riferimento, anche perchè è la semplice storia di una persona che segue un sogno. È un racconto di formazione e di crescita. Quindi sì, parla sicuramente a quella generazione che ha vissuto quel momento politico che raccontiamo, ma ci auguriamo che possa parlare a chiunque.

Come mai non vi siete portati a Torino Sauro?
Perchè è in viaggio nell’est asiatico al momento. Da Mosca in poi gli si è aperto l’universo: ha deciso di non sposarsi, ha girato il mondo. Ha fatto non solo il barbiere, ma anche il ragioniere in una cooperativa di trasporti per la frutta, e dopo la pensione ha fatto un bilancio: avendo la casa molto grande, alla fine spendeva di più in riscaldamento che a viaggiare.

Cosa riconoscete a quella generazione di cui raccontate i ricordi?
Allora si credeva che il mondo sarebbe stato migliore. Si credeva nella politica. Oggi invece qualunque tipo di impegno politico nella nostra generazione è malvisto. Loro avevano l’orgoglio di aver costruito e tentato di costruire un’Italia diversa, di aver sognato. La lezione che ci lasciano, e che anche il film prova a trasmettere, è quella di provare ad esserci, di non abbandonarsi.

Infine, sentite una qualche responsabilità dopo che sia a Venezia che a Roma hanno vinto i documentari (rispettivamente Sacro Gra e Tir)?
Sinceramente no. Semmai la responsabilità è degli altri che decideranno, o meno, di premiarci.

Di Claudia Catalli per Oggialcinema.net


Il treno va a Mosca
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