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Creato il 17 agosto 2011 da Renzomazzetti
terra,non guerra di Armando Pizzinato.

terra,non guerra di Armando Pizzinato.

Nel mille novecento quaranta quattro facevo il famiglio dei Botèe; era il nostro tempo sacro, arso dal sole del dovere. Nuvole nere sul focolare, macchie bianche nel cielo, erano la paura e il piacere di amare la falce e il martello. Io ero un ragazzo di sedici anni, con un cuore ruvido e disordinato, con gli occhi come rose roventi e i capelli come quelli di mia madre. Cominciavo a giocare alle bocce, a ungere i ricci, a ballare di festa. Scarpe scure! Camicie chiare! Giovinezza, terra straniera! In quel tempo si andava a rane di notte col fanale e la fiocina. Rico insanguinava le canne e le erbacce col fanale rosso nell’ombra che gelava le ossa. Nel Sile si trovavano pesciolini a migliaia dentro le pozze. Andavamo pian piano senza un grido. Nel boschetto dei pioppi appena mangiato si radunava tutta la compagnia dei ragazzi, e lì spesso si bestemmiava e come uccelli si cantava. Dopo giocavamo alle carte all’ombra del granoturco. La madre e il padre erano morti. Di domenica, uomini dal cuore greggio, si correva via in bicicletta per luoghi di un incanto senza prezzo. Una sera ho visto Neta, nella luce del boschetto, che conduceva al pascolo la pecora. Con il suo ramoscello essa muoveva l’aria di seta. Io odoravo di erba e di letame e dei sudori rassegnati nel mio caldo torace di cuoio; e i calzoni infilati sui fianchi, dimenticati dall’alba, non coprivano la voglia gonfia di albe assopite e di sere senza fresco di pioggia. Per la prima volta ho provato con quella ragazza di tredici anni e pieno di ardore sono scappato a raccontarlo ai miei compagni. Era Sabato e per le strade non si vedeva neanche un cane. La casa dei Sellàn bruciava. Le luci erano tutte spente. In mezzo alla piazza c’era un morto in una pozza di sangue agghiacciato. Nel paese deserto come un mare quattro tedeschi mi hanno preso e gridando rabbiosi mi hanno condotto su un camion fermo nell’ombra. Dopo tre giorni mi hanno impiccato al gelso dell’osteria. Lascio in eredità la mia immagine nella coscienza dei ricchi. Gli occhi vuoti, i vestiti che odorano dei miei rozzi sudori. Coi tedeschi non ho avuto paura di tradire la mia giovinezza. Evviva il coraggio, il dolore e l’innocenza dei poveri! (meditazione sulla poesia in dialetto friulano: El TESTAMENT CORAN di Pier Paolo Pasolini).

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I   S  O  G  N  I   LXXXIV.

Spunta il rosso sole di un sogno nell’Oriente.

Luce in sogno. Non tremi, viandante che cammini?

Passato il verde piano, sulla collina in fiore,

forse c’è il traguardo finale del tuo viaggio.

 

Tu non vedrai del grano la spiga stagionata

e di polpose mele carico il meleto,

né della crespa vite l’uva rosata e d’oro

spremerà il suo liquore allegro nel tuo tino.

 

Quando il primo aroma spirino i gelsomini,

quando più palpitino le rose dell’amore,

una mattina d’oro che illumini i giardini,

non fuggirà, dispersa nube, il sogno in fiore?

 

Campo verde e da poco in fiore ancor potessi

sognare lungo tempo tra queste azzurrognole

corolle piccoline che son macchie del prato

e tra queste minute novelle margherite!

-Antonio Machado-

 


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