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In morte di Christa Wolf

Creato il 02 dicembre 2011 da Sabrinacampolongo @AnneStretter

In morte di Christa Wolf

Di lei ho molto letto, di lei ho scritto e a lei mi sono anche ispirata. Anche il titolo di questo blog viene da una pagina del suo libro più privato, forse, il diario di un giorno dell’anno, dal 1960 al 2000. Era uno dei titoli che, scriveva, le sarebbe piaciuto usare per un romanzo. Non l’ha usato, che io sappia, né l’ho fatto io. Ma è qui, come un appunto, come un omaggio. Passaggi Mimetici.

Poco da dire sul fatto che se ne sia andata, a 82 anni, o sul mio privato rammarico, pensando che non ci sia più. Molto da dire su quello che ha scritto, moltissimo. Così, oggi, da qui, fuori di mimetismo, vi invito a farlo.

Cominciando magari da questo.

In morte di Christa Wolf

Christa Wolf inizia a scrivere i primi appunti su Medeanel 1990, all’indomani della caduta del muro di Berlino, e nel momento in cui si rende conto che il suo Paese, la DDR, “stava sparendo dalla Storia”. Non si può immaginare forma più totale di sconfitta, per uno Stato, della sua ‘sparizione’: la cancellazione non solo del suo nome, delle sue strutture politiche e amministrative a ogni livello, ma anche la negazione della sua storia, del suo percorso, delle sue forme di espressione artistica, intellettuale, scientifica. Niente di più lontano dal concetto di unificazione. Nel matrimonio tra RFT e DDR è accaduto che, subito dopo il banchetto, la sposa dell’Est sia stata spogliata della dote, le sia stato intimato di rinnegare i genitori, di dimenticare la sua infanzia, scordare tutti i libri letti e gli amici, bruciare i vecchi abiti e indossarne di diversi, mangiare cose nuove, frequentare una nuova chiesa e il tutto cercando di dare il meno fastidio possibile. I vincitori hanno preteso che l’identità dei vinti venisse da loro stessi negata come una buccia vuota, spazzata via, distrutta, cancellata se possibile, altrimenti occultata – per sostituirla con una nuova pelle modellata sui valori occidentali del profitto e del consumo. Un atto non dissimile dalle vecchie dinamiche della colonizzazione.

La Wolf, in quanto intellettuale, subisce in prima persona questo trattamento. Già precedentemente biasimata in patria, da quanti la consideravano troppo critica verso la politica di regime, si ritrova a esserlo anche nella nuova patria, questa volta per non essere abbastanza critica verso il passato. Da sovversiva diventa reazionaria, una spia, addirittura (“hanno fatto di noi quello di cui avevano bisogno”, dirà la sua Medea) e gli effetti sulla sua vita restano gli stessi: diffidenza, isolamento, accuse. Non migliore sorte tocca a molti altri cittadini e intellettuali dell’ex DDR, dopo l’ubriacatura collettiva della caduta del Muro: profughi a casa loro, diventano tedeschi di serie B, privati della voce, negati e dimenticati, quando non diffamati, nella Germania unita; a eccezione di quelli che si sono affrettati a rifarsi una verginità ideologica, rinnegando ogni riflessione e produzione autonoma precedente all’annessione, contribuendo così in modo attivo alla scomparsa politica, economica, culturale e simbolica della Germania dell’Est.

Dalle retrovie in cui si trova relegata, la Wolf si interroga sui corsi e ricorsi della Storia. La cancellazione della cultura dei vinti e la riscrittura della loro esistenza da parte dei vincitori non è un’invenzione recente, ma un’operazione sistematica, che molto spesso ha avuto bisogno della creazione o della rielaborazione di un Mito. Se un modo per arrestare, o almeno denunciare questo processo, esiste, deve riconoscere la forza vitale della narrazione mitica, la sua necessità che non conosce declino, e cercare di decifrare i rapporti tra vero e falso all’interno del Mito; indagare sui bisogni e sugli interessi che hanno portato alla sua fabbricazione. Per chi vede nella scrittura un’arma, la ricerca non può che avvenire scrivendone.

…continua qui



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