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Intervista di Irene Gianeselli all’attore Tony Laudadio: a teatro come nella scrittura ogni morte è una nascita

Creato il 09 novembre 2015 da Alessiamocci

«Mi avevano messo in guardia – e, d’altra parte, è l’effetto più evidente – e allora io, la sera precedente la mia prima seduta, decisi di togliere soddisfazione alla chemio – come se fosse una lotta tra me e lei, e non tra me e il tumore, ma in fondo non c’era tanta differenza – e mi rasai a zero, mi tagliai tutto, mi depilai completamente: capelli, peli, sopracciglia, tutto. Ero glabro come non ero mai stato neanche alla nascita. «E fottiti!» dissi ad alta voce in bagno quando ebbi finito la rasatura, riferendomi al trattamento.» – Tony Laudadio, L’uomo che non riusciva a morire, NN Editore, 2015

Tony Laudadio si forma come attore alla Bottega Teatrale di Vittorio Gassman. Lavora fin dal principio in teatro con la Compagnia Lombardi/Tiezzi, Arnoldo Foà, Leo De Berardinis. Nel 1993 avvia un lungo periodo di collaborazione con Toni Servillo con “Zingari”, “Misantropo”, “False Confidenze”, “Tartufo”, “Sabato Domenica e Lunedì”. Nello stesso periodo fonda insieme ad Enrico Ianniello la Compagnia “Onorevole Teatro Casertano” con la quale produrrà i propri spettacoli, spesso anche autore dei testi conduce una personale ricerca sulla drammaturgia contemporanea. In questi anni, con il suo gruppo di lavoro dà vita a spettacoli come “Rosencrantz e Guildenstern sono morti”, “Pinocchio”, “Magic People Show”, “Šostakovi?” e “Tradimenti” di Pinter con Nicoletta Braschi.

Al cinema collabora, tra gli altri, con registi quali Marco Risi, Paolo Sorrentino, Nanni Moretti, Eduardo De Angelis. Dal dicembre 2012 è interprete di “Jucature – I Giocatori” testo di Pau Mirò – tradotto e diretto da Enrico Ianniello – che verrà rappresentato in anteprima regionale al Teatro Kismet di Bari dal 18 al 21 febbraio 2015. Tony Laudadio ha pubblicato alcuni suoi testi teatrali nel volume “Teatro Fuorilegge” (Spartaco, 2010): “La gabbia”, messo in scena dal TeatroCivico14 di Caserta nell’ambito del Fringe Festival di Napoli, “Infanzia di un socialista” monologo che ha interpretato nel 2006 al Teatro Garibaldi di Santa Maria Capua Vetere, “L’appostamento”. È anche autore dei romanzi “Esco” (Bompiani, 2012), “Come un chiodo nel muro” (Bompiani, 2013) e “L’uomo che non riusciva a morire” per NN Editore in tutte le librerie dal 22 ottobre 2015.

Tony Laudadio racconta in questa intervista del suo ultimo romanzo e del suo modo di vivere la scrittura con il teatro ed il teatro con la scrittura.

Ringrazio NN Editore per avermi concesso la pubblicazione dell’incipit del terzo capitolo de “L’uomo che non riusciva a morire”.

I.G.: Prima di introdurre ai lettori il tuo ultimo romanzo “L’uomo che non riusciva a morire” edito da NN, raccontaci il tuo percorso di attore e scrittore. Il fulcro attorno al quale gravita tutto il tuo impegno è la parola: la parola scritta, la parola letta, la parola in scena sul palco.

Tony Laudadio: La parola per me è come la punta dell’iceberg. Spesso la parola serve a nascondere più che a rivelare e io sono attratto da ciò che sta dietro le parole. La parola, quindi, ma anche lo spazio che c’è in mezzo alle parole, i silenzi, le pause, il ritmo, la musica. Quello che mi ha sempre affascinato è l’interiorità, il pensiero, i comportamenti. In una parola direi la persona. Che poi sia per il mestiere d’attore che in quello di scrittore si tramuta in personaggio.

I.G.: Dal tuo percorso emerge l’importanza e la necessità dell’incontro: hai incontrato e quindi lavorato soprattutto con Enrico Ianniello, Andrea Renzi e Pau Mirò. Queste intense collaborazioni – alcune sono cominciate già nel periodo accademico – hanno portato alla messinscena di diversi ed originali spettacoli oltre alla nascita di Compagnie e Fondazioni. A partire da questo aspetto come consideri la situazione del teatro di oggi?

Tony Laudadio: Le mie collaborazioni, gli incontri appunto, mi hanno reso ciò che sono. Capita così a tutti. Enrico ed io ci siamo conosciuti alle scuole medie e abbiamo condiviso praticamente tutto. Con quelli che hai citato – a cui aggiungerei la compagnia Teatri Uniti, con Toni Servillo e il produttore Angelo Curti in primis (e ce ne sarebbero molti altri) – c’è stata una condivisione profonda. Ma anche gli incontri in ambito letterario sono stati fondamentali e tra questi direi soprattutto quello con Silvia Meucci, la mia agente letteraria. Il discorso sul teatro di questi tempi in Italia sarebbe lungo e pieno di eccezioni. Tuttavia posso dire che, a dispetto di una burocrazia che tende a soffocare le piccole realtà, mi sembra che ci sia in giro tanta vitalità e che dove il lavoro sul territorio diventa costante e continuativo, nascono interessanti collettivi. A loro volta da questo humus, dal terreno fertile, vengono fuori gli artisti.

I.G.: Toni Servillo in una delle tante interviste: «Napoli è una Comédie-Française en plein air, ha una storia dello spettacolo e delle arti che riempie volumi e volumi di biblioteche in tutti i campi. Fino ad oggi non c’è anno che questa città meravigliosa e anche tanto martoriata non faccia nascere uno scrittore, un poeta, un attore, un nuovo regista di spessore internazionale. La città è una tale sintesi del mondo che si può felicemente definire vuota sotto, proprio come un palcoscenico, e molto piena sopra. Eduardo in una sua poesia scrive che Napoli è un teatro sempre aperto. Napoli è una città ideale per un attore». Anche tu sei cresciuto in Campania, a Caserta. In tal senso si può dire che l’“idea Napoli” avvolga e coinvolga gran parte del territorio campano? La tua prima pubblicazione “Teatro Fuorilegge” contiene un monologo attraverso il quale si può riflettere sul rapporto tra il “meraviglioso” presente nella cultura partenopea e l’aspetto più “martoriante” di un sistema che ne tradisce la profondità.

Tony Laudadio: Napoli irradia la sua cultura molto al di là dei sui confini. Io ho deciso di vivere in provincia (a Caserta) perché ho preferito staccarmi dal suo epicentro, proprio per non rimanerne troppo schiacciato. Ho un rapporto con Napoli che rispecchia esattamente le sue contraddizioni: non sopporto la forma oleografica, folkloristica, della tradizione napoletana, il suo ripetere se stessa come una sorta di replica teatrale, eppure ne sono affascinato perché capisco che proprio questa natura spettacolare, di auto-rappresentazione, ne rivela il dramma, a volte la disperazione. Quindi a volte ne fuggo, a volte me ne nutro. Sono convinto che da questa contraddizione di bellezza e squallore, di richiesta d’aiuto e cinismo, nasca l’artista. L’arte, a mio parere, nasce sempre dai contrasti interiori. Suppongo sia per questo che da Napoli vengono fuori sempre nuove leve creative. “Giocatori”, il nostro spettacolo teatrale da un testo di Pau Mirò (che è diventato ora anche un film), insiste proprio su queste caratteristiche e, pur essendo stato scritto da un catalano, ne coglie la profondità, credo senza mai cedere alla banalità. Toni Servillo stesso, d’altra parte, con cui ho collaborato per tanti anni, è dovuto passare attraverso l’esplorazione di altre drammaturgie (Moliere, Marivaux, lo stesso Goldoni) per poter affrontare Eduardo senza rischiare stereotipi. “Teatro Fuorilegge” è stato anche il mio battesimo editoriale (tra l’altro con una piccola realtà molto attiva sul territorio, Edizioni Spartaco, appunto) e in quei testi c’è una prima sintesi della ricerca drammaturgica che sto compiendo. Esplorazione dei personaggi, dall’interno, per avere un punto di vista preciso sulla realtà esterna. Stando sempre sul crinale tragicomico che più preferisco. Ma sentivo già allora che avevo bisogno di una forma nuova per esplorare più in profondità certi ambiti e quindi è arrivata, con grande naturalezza, la vocazione narrativa e la pubblicazione dei primi romanzi con Bompiani.

I.G.: Vitangelo Moscarda è il protagonista di Uno, nessuno e centomila, romanzo pirandelliano dei più strutturati e completi. Vitangelo Moscarda comincia il suo percorso di conoscenza della propria inconoscibilità a partire dal proprio naso e così il tuo protagonista, il tuo uomo che non riesce a morire. A poco a poco questo “Io” perde paradossalmente contatto con il corpo e lo spazio, è costretto a guardarsi vivere, o forse morire, in un limbo feroce e opprimente. «Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni. La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioia nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridìo delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e così alte sui campanili aerei. Pensare alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori» così Pirandello conclude le vicende di Moscarda e non ha più alcun senso parlare di morte come di vita. Come è nata la tua storia?

Tony Laudadio: La citazione pirandelliana è un onore per me e già il sentirmi accostato a quello che è stato un riferimento costante nei miei anni di formazione è un traguardo. L’uomo che non riusciva a morire nasce da un’amicizia, un aspetto privato, personale del mio vissuto (del vissuto di molti a quanto pare), che ho voluto trasfigurare in questo racconto. La trasfigurazione è elemento centrale, a mio parere, della vicenda. Tutto nasce banalmente, in zone della vita dove non si nota niente di eccezionale, fuori dal comune, e poi mano a mano – come capita sempre quando ci si sofferma e si indaga in profondità – tutto diventa straordinario, la vita stessa diventa paradigma (e paradosso). La malattia, il decorso, le cure e poi improvvisamente il confronto con l’eternità, anzi direi quasi il duello con l’eternità, che contiene momenti intensi e drammatici ma anche, e più spesso di quanto vogliamo ammettere, momenti di comicità travolgente.

I.G.: I gesti di un attore si consumano non appena la rappresentazione termina e ad ogni nuova rappresentazione vengono ri-creati. Una morte apparente, l’eterno ritorno di un “hic et nunc” che di fatto è irripetibile, una contraddizione meravigliosa. Quale relazione c’è tra questa storia e il tuo modo di vivere il teatro?

Tony Laudadio: Il punto centrale, il comune denominatore di tutto ciò che scrivo (e recito), è la persona. Tutto è rivolto a indagare quello che vi è nascosto dentro, e non mi riferisco tanto all’indagine psicologica (che pure è innegabile) quanto alla riproduzione degli stati d’animo, alle leve che muovono e determinano i comportamenti umani. Naturalmente ci sono luoghi dell’esistenza più interessanti di altri per realizzare questo intento e l’immagine del confine mi aiuta molto: mi piace stare in bilico, passare da un lato all’altro di qualunque confine, danzarci sopra. Tra il tragico e il comico, tra il privato e il pubblico, tra le bellezze e le debolezze. E come in questo caso tra la vita e la morte. In teatro c’è solo un problema: la replica. Realizzare uno spettacolo non è difficile, replicarlo all’infinito è il vero dramma. E così è anche per il protagonista del mio racconto.

I.G.: Nei ringraziamenti fai riferimento a Peppe Clemente. Cosa puoi raccontarci di lui?

Tony Laudadio: Lui è l’amico da cui tutto è nato, di cui parlavo prima. Un’esperienza personale che è stata la molla iniziale e l’ispirazione. Quando anche lui si è trovato sul confine, ho potuto avere un testimone oculare (in una persona illuminata) di tutto quello che dicevo prima. È stato il mio inviato di guerra, la fonte.

I.G.: Il filo rosso che segui a partire da “Come un chiodo nel muro” ed “Esco” fino all’ultimo “L’uomo che non riusciva a morire” è la morte nel momento in cui diventa l’evento scatenante capace di modificare ben più di una vita. Perché partire da quello che dovrebbe essere l’ultimo atto?

Tony Laudadio: Perché è il limite massimo, il confine supremo. Lì si trovano spesso le risposte cercate per una vita e il terreno fertile per coltivare le proprie convinzioni. Però in tutto quello che scrivo, i miei romanzi ma anche i testi teatrali, tento sempre di produrre un fondamentale ribaltamento della naturale percezione della morte. L’evento tragico della scomparsa della vita diventa sempre motivo di interesse, riflessione e stimolo nei personaggi, ogni vita che finisce è nutrimento per ciò che rimane, per chi rimane. Così ogni morte diventa movente di qualcos’altro, nessuno muore invano. Potrei arrivare a dire che ogni morte è una nascita, ma sto diventando troppo serio e metafisico, per quello ci sono i filosofi. In fondo io racconto solo storie.

Written by Irene Gianeselli

Info

Sito Tony Laudadio

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