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Iper-inferno [10]: “Il personaggio più malvagio di ogni tempo fa il suo ingresso e non delude”

Da Ludovicopolidattilo

Iper-inferno [10]: “Il personaggio più malvagio di ogni tempo fa il suo ingresso e non delude”

Un omaggio al Divino Marchese e al valore pedagogico della sua prosa.

Il resto, volendo, è qui.

Relazionando circa l’esegesi delle iscrizioni paleoisseniche durante il congresso di criptolinguistica di Agatoburgo, ritirando il prestigioso Sigillo di Durjalich, assegnatomi dalle più antiche accademie dell’Orstilia per le mie ricerche, tenendo un’audace lezione teoretica nelle sale dell’Accademia di Ghertz a un gruppo di studenti rapiti dal mio eloquio e dalla fondatezza lucida delle argomentazioni che sovvertì i fondamenti di almeno quattro discipine correlate, già il male albergava in me. In queste e in altre occasioni propositi di empietà rara nascevano nel mio petto e si facevano strada per divenire progetto nella mia mente e crimine compiuto nelle mie mani. Il male albergava in me poiché il male in forma di vanità, di ambizione senza limiti, di volontà di sopraffazione e dominio si era manifestato nella mia esistenza di infante per inoculare un seme tanto venefico quanto indistruttibile.

La forma che il male scelse per agire e imprigionarmi il cuore, ebbe assunto nome e volto di Morgenstern.

Quando Morgenstern camminava, lungo la linea dei suoi passi le persone e le cose non sostavano mai abbastanza da divenire ostacoli. Per questo egli procedeva senza mai rallentare, non occorrendo punto. Un cappotto asimmetrico di foggia o tale per l’assecondare membra di proporzioni inusuali che alcuno, per nessun motivo, avrebbe mai desiderato svelare. Un cappello dalla tesa determinata nell’impedire alla luce di scivolare oltre il margine delle sue orbite. Una borsa rigonfia di documenti vergati su carte di pregio sconosciuto agli stampatori moderni, spesso su fibre ottenute da piante che non hanno mai osato crescere sulle argille di un paese occidentale, a volte su supporti di origine tale da imporre un’inchiesta giudiziaria se fossero arrivati in mano a un magistrato in grado di identificarne la natura. Documenti così pieni di storia e mistero da dibattersi quasi nel tentativo di guadagnare libertà per rituffarsi nel vortice di avventure e leggende da cui erano stati prelevati loro malgrado. I capelli neri di Morgenstern erano tali nonostante un età che li avrebbe previsti incanutiti o assenti. Spartiti al centro lungo una riga diritta da un pettine rigoroso e intransigente seguivano ciascuno esclusivamente la linea curva cui li aveva destinati una volontà senza esitazioni. Occhi di notte che ospita l’incendio. Soprattutto la sua fama, terribile al punto da renderlo un autentico emblema di ciò che è malvagio e crudele.

Noi fanciulli, presagendo il manifestarsi di un evento funesto dal pararsi di una livida nuvola di fronte al sole, fummo indotti dall’istinto a smettere i lazzi per celare la nostra acerba figura dietro un riparo. Come attirato dall’aroma di membra pure e fresche, Morgenstern arrestò i suoi passi. Si disegnò sul suo volto il sorriso di chi non può essere ingannato poiché agli inganni potrebbe istruire ogni fatta di scellerato. Il vecchio sostenne il mento di arroganza e inspirò rumorosamente due volte, ruotò il capo di pochi crudeli gradi e inspirò ancora nello stesso modo per sondare gli afrori che lo interessavano, calibrando via via l’indagine. Le dimensioni e la perfidia del suo sorriso dilagarono sino a prevalere su ogni altra pur tenace linea del suo volto. Allora, con pochi rapidi movimenti delle aguzze scarpe, saltellando di lato e mantenendo lo sguardo indirizzato verso l’alto in una simulata distrazione, giunse a pochi metri da noi fanciulli. Dietro i nostri nascondigli trattenemmo il respiro per un tempo che superò ogni limite sino ad allora ritenuto invalicabile. Con una voce che parve venire da un pozzo dove si teme di sputare per non risvegliare gli abissi, il vecchio cantò:

Quando a Morgenstern sorridi
nella bocca conta i denti
se son dispari ti salvi
se son pari son lamenti.

Mentre i ragazzini fuggivano atterriti in ogni direzione abbandonando i propri nascondigli per cercare rifugio, a isolati di distanza, nelle braccia di un genitore o nell’alveo del proprio giaciglio, la risata del vecchio esplodeva fragorosa entrando nella memoria di quelle innocenti creature per fornire nutrimento ai mille incubi che le notti della loro vita avrebbero loro riservato.

Questa volta una creatura minuta non fuggì. I capelli chiari con la frangia, le guance cremisi, i pantaloni corti, la maglietta gialla sporca di terra: ero io. Lasciato l’inefficace riparo mi disposi ritto di fronte al vecchio e lo guardai con l’espressione più seria che riuscii a trovare. Istanti di sorpresa e la domanda del vecchio: «Perché non scappi come gli altri? Non sai chi sono? Non hai paura di me?»
Dopo qualche istante di esitazione riuscii a rispondere «Sei l’uomo che vive nella villa dove si sentono i rumori di ferro e di legno e dove gridano le donne dopo che il sole è andato via. Ho tanta paura. Io ho sempre paura, proprio per questo voglio che mi insegni»
«Cosa potrei insegnarti insettino incespicante nei fili d’erba?»
Sperai in quel momento che il vecchio continuasse a guardarmi negli occhi e non rivolgesse lo sguardo a una qualsiasi altra parte del mio corpo, poiché l’avrebbe vista tremare contraddicendo quell’aria di sicurezza che cercavo disperatamente di ostentare. «Voglio che mi insegni a non avere più paura di nessuno. Voglio che mi insegni a diventare più cattivo di tutti, in modo che siano gli altri ad avere paura di me».
Morgenstern sorrise e chinandosi verso di me. Mi sorpresi a non arretrare neppure di un’inezia, pur continuando a tremare come una scodella di gelatina dimenticata sul sedile di un trattore. Il mio sguardo rimase fermo sul volto del vecchio e, oltre questo, sul destino che avevo deciso di affrontare.
«E tu che cosa mi darai in cambio?»
Pensai qualche istante alla risposta sentendomi smarrito. Mi guardai intorno come se la soluzione potesse arrivare dalle consunte architetture di quel brano di periferia. Poi riacquistai sicurezza improvvisamente e illuminandomi seppi rispondere: «Ti darò la mia sorellina!».
Le pieghe del volto del vecchio cessarono di irradiarsi da un sorriso: «Non mi interessa tua sorella, pensa invece alla filastrocca». Mi aprì allora la bocca con due dita. Vide una dentatura perfetta, candida e acuminata. «Ti viene in mente un modo per rendere dispari il numero dei tuoi denti? È meglio che tu faccia uno sforzo di immaginazione, altrimenti non solo non ti insegnerò tutto quello che so, ma farò di te un prelibato spezzatino».
Compresi immediatamente come se il linguaggio di quell’uomo rivelasse qualcosa di palese come nient’altro era mai stato. Dopo aver afferrato un grosso sasso mi avvicinai al marciapiede e vi appoggiai una guancia. Chiusi gli occhi e brandendo la pietra con la mano la feci calare di colpo sulla mascella producendo un rumore sordo. Neppure un gemito, tuttavia, si udì quel giorno.
Con il sangue che mi usciva dalla bocca camminai verso il vecchio e collocatomi di fronte a lui gli appoggiai sulla grande mano rugosa un piccolo pugno chiuso. Quando lo aprii questo lasciò cadere un minuscolo oggetto bianco immerso in un liquido porpora. Il vecchio pulì il mio dente sul risvolto del cappotto e lo infilò in tasca.
«Torna a casa – mi disse – e sii affettuoso con i tuoi genitori e con la tua sorellina. Domani vai a scuola e studia molto sino a diventare il primo della classe. Prendi sempre bei voti e compiaci i tuoi insegnanti in ogni modo. Osserva i tuoi compagni, diventa loro amico cercando di capire quello di cui hanno bisogno e procurandolo loro. Trattieni le tue emozioni quando sei di fronte ad altri, pensa prima di agire e prima di parlare per ottenere ciò che ti sei posto come obiettivo. Sii paziente in ogni situazione. Con pazienza attendi diventare uomo, allora ci incontreremo di nuovo».
Mi osservò per vedere se avevo seguito il suo discorso, poi aggiunse «Ricorda che il tuo nome ha origine da Kaschmir, un luogo in cui da particolari capre si ottiene una lana preziosissima perché in grado di proteggere dalle alte come dalle basse temperature di quei luoghi. Devi vivere come fossi avvolto in quella lana, senza lasciarti mai dominare dal freddo, dal caldo, dagli uomini e dagli eventi». Dopo avermi voltato le spalle si allontanò. Quando la sua sagoma fu così lontana da sembrare minuta e persino innocua, si udì una voce gutturale intonare una filastrocca in rima come quelle che a volte si cantano ai bambini.

Devo arrestare la narrazione per dedicarmi ai miei sibilanti amici. Ma credo abbiate compreso l’essenza di quanto volevo dire. Di come il male abbia principiato ad albergare nel mio petto per un incontro e un patto scellerato tra un bimbo e l’incarnazione dell’empietà.
Ecco le voci. Ecco quando dicono.

Continua…



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