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Japan by rail /4 – lo sfarzo di Kyoto e la speranza di Hiroshima

Da Betuli

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Kyoto
Abbiamo visitato Kyoto nella maniera più intelligente possibile: noleggiando delle biciclette ad un prezzo stracciato. Con i maggiori punti d’interesse sparsi ad ogni angolo della città e pochissimo tempo a disposizione, questa si è rivelata la scelta vincente. Anche se voler vedere tutto ciò che Kyoto offre è un po’ come cercare di completare l’album delle figurine – ce n’è sempre qualcuna che manca. D’altra parte l’Unesco ne ha dichiarato patrimonio dell’umanità ben 17 siti: templi buddhisti e santuari shintoisti soprattutto, ognuno unico nel suo genere.

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C’è ad esempio il Kinkaku-ji con il suo famosissimo padiglione d’oro. O il Ginkaku-ji, dove il tempio principale è chiamato padiglione d’argento anche se argentato non è. O ancora Ryoan-ji e il suo giardino zen fatto di 15 rocce alla deriva in un mare di sabbia. Per un’intera giornata ci siamo spostate da tempio a tempio, pedalando nel traffico cittadino e sfrecciando sui marciapiedi proprio come fanno i giapponesi. Ogni tempio, ogni santuario ha qualcosa di speciale che lo rende unico e diverso dagli altri – vietato pensare “visto uno visti tutti”.

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Che comunque Kyoto non è solo templi e spiritualità, seppur sfarzosa, ricca e stupefacente. La prima cosa che si pensa nominando Kyoto sono le Geisha, donne bellissime vestite con abiti tradizionali incredibilmente elaborati (diversi dai più semplici kimono che molte giapponesi indossano normalmente nel loro tempo libero), maestre dell’intrattenimento cortese ed elegante. Il loro “quartier generale” è in un edificio in legno nel quartiere di Gion, all’ingresso un guardiano impedisce ai curiosi di intrufolarsi a ficcare il naso. Qualche cliente arriva a piedi o in taxi e viene fatto entrare con tutti gli onori del caso. Qualcuno invece arriva in auto ma non per restare, e per i curiosi questo è di certo il cliente migliore: la Geisha esce per lui, passi piccoli e delicati e movimenti lenti per entrare in auto senza inciampare nel vestito. Un sorriso discreto, la portiera si richiude e l’auto se ne va, probabilmente diretta verso uno dei locali lussuosi e costosissimi di Ponto-cho, per una cena con vista sul fiume.

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Hiroshima
Usciti dalla stazione ferroviaria di Hiroshima ci si addentra in una città assolutamente normale: grandi palazzi di cemento, lunghe vie di negozi, gallerie dello shopping e del divertimento, il tram che attraversa la città dal un punto all’altro. Al centro si apre il Parco della Pace, un ampio spazio verde disseminato di monumenti commemorativi che cambiò per sempre il volto della città, il corso della storia e la vita di migliaia di persone. Sulla sponda opposta del fiume che costeggia il parco si erge spettrale l’A-dome, l’edificio divenuto simbolo della città, con lo scheletro della cupola che ogni sera viene illuminato a ricordo di ciò che accadde. Al lato opposto del parco, il cenotafio con la fiamma della pace e dietro di esso il Museo della Pace, che racconta senza peli sulla lingua i fatti che portarono allo sgancio della bomba e gli effetti devastanti dello scoppio.

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Più di tutte mi ha colpito profondamente la storia della piccola Sasaki Sadako. A 11 anni scoprì di essere malata di leucemia, lei che allo scoppio della bomba atomica aveva poco più di un anno. Poiché la gru è per i giapponesi simbolo di longevità, decise di costruire 1000 origami a forma di gru nella speranza di guarire. Morì un anno dopo. I suoi compagni di classe decisero di portare avanti l’impresa delle 1000 gru di carta di Sadako – era il 1955. Da allora ogni giorno migliaia di gru colorate vengono deposte accanto al monumento dedicato a Sadako, diventata simbolo degli effetti della bomba atomica e della speranza che può comunque continuare ad esistere nonostante tutto.


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