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Junichiro Kawasaki: ultimo atto

Creato il 06 marzo 2011 da Viadellebelledonne

 

Junichiro Kawasaki: ultimo atto

 

Gafyn, di due anni più giovane di lui, era nato a Cardiff il 30 novembre 1900, lo stesso giorno in cui a Londra si spengeva Oscar Wilde. Suo padre era minatore e sua madre cameriera. La sua singolarità fu che per tutta la vita si rifiutò di lavorare, guadagnandosi da vivere scommettendo con intelligenza e intuito, senza mai esagerare, sulle corse dei cani. Nel ’26 aveva scritto Manifesto per un mondo che non c’è e nel ’31 Beauty is beauty: la particolarità di questi testi sta nel fatto che la loro stesura avveniva sul retro dei tagliandi delle puntate fallite. I salti logici della sua prosa dipenderebbero invece dalla scommesse indovinate e i cui tagliandi erano stati ritirati. Cardiff era il suo mondo e si era deciso a lasciarlo per la prima volta soltanto a ventisette anni per un doppio soggiorno prima in Urss e poi negli Usa. Fu proprio il suo soggiorno statunitense, forse per l’esasperata esaltazione dell’individualismo, a sviluppare i suoi istinti anarchici. Dopo aver conosciuto e apprezzato attraverso i media Kawasaki, si era deciso a progettare un viaggio in Estremo Oriente per conoscerlo di persona e magari vivere con lui qualche emozionante esperienza intellettuale.

Quando bussò porta di Junichiro, dopo aver passato un’intera giornata a trovarne l’abitazione, malgrado la notorietà del personaggio,  Gafyn indossava un paletot  di cammello con pelliccia, malgrado la stagione mite, già decisamente primaverile, camicia con cravatta, un cappello alla Sherlok Holmes, a quadretti e occhiali rotondi. Pareva appena uscito dalla hall del miglior albergo di Tokyo. Junichiro ci mise una frazione di secondo a riconoscerlo, meravigliandosi non poco che un anarchico avesse l’aspetto di un perfetto borghese.

Dopo una settimana di soggiorno a Tokyo, in cui l’ospite giapponese offrì a quello gallese quanto di meglio si poteva desiderare in termini di arte, visita ai vari quartieri cittadini, compresi quelli ancora ingombri delle macerie di guerra e dopo l’immancabile ascesa al Fujiyama, che colpì profondamente per la sua bellezza e spiritualità il pur scettico anarchico europeo; i due progettarono qualcosa che si sarebbe adattato forse meglio a due trentenni invece che a due compassati signori di mezza età: un viaggio a Kyoto in motocicletta. Cominciò così un’avventura che avrebbe loro offerto, se non ne avessero avuti altri, argomenti di conversazione per i prossimi decenni e che si sarebbe scolpita come ceralacca bollente nella loro mente in tutti i suoi particolari. Era uno spettacolo vederli, Junichiro e Gafyn, il primo in moto, il secondo in sidecar, percorrere le centinaia di chilometri tra la nuova e l’antica capitale del Giappone, felici come ragazzi in gita scolastica, cotti dal sole o zuppi di pioggia; adattarsi a mangiare sotto un albero o nei pressi di qualche vecchio ponte; riposarsi a turno per paura di vedersi sparire dagli occhi moto e trabiccolo. Impiegarono una buona settimana a coprire il percorso, perché se la presero comoda, quasi che allungare il viaggio significasse allungarsi anche la vita.

Fu a loro che anni dopo si ispirarono Alberto Granado e Ernesto che Guevara nel loro viaggio in moto per il Sudamerica.

Quando arrivarono a Kyoto, stanchi, sporchi e puzzolenti, la prima cosa fu trovare la casa dei suoceri di Junichiro, ancora in gamba, seppure vecchissimi, ripulirsi, rifocillarsi a dovere, dormire in un vero futon, insomma tornare ad essere quei maturi e rispettabili borghesi che avevano rinnegato per una settimana.

Nei giorni seguenti Gafyn fece indigestione di templi e parchi: la furia della guerra  l’aveva miracolosamente risparmiata e Kyoto era bellissima nei colori pastello del suo cielo attraversato da una luce soffusa; nel candore della fioritura dei ciliegi, in quel periodo al suo culmine; nella meraviglia dei  giardini zen ricoperti di ghiaia; nelle stradine, nei vicoli, nei labirinti di quartieri come Gion, dove Junichiro volle ritornare, col cuore che gli martellava nel petto,  per un’idea folle: rivedere la geisha della sua infanzia, quella che gli aveva rubato il sonno e l’innocenza

Gafyn tornò a Cardiff e per molto tempo non si fece vivo col suo amico giapponese, ma lui capì: intuiva che non si sarebbero più rivisti, almeno nello stato di grazia di quel mese d’aprile 1953 ed evitava contatti per soffrire meno. Poi ci furono delle lettere, che diventarono però sempre più rare perché l’amicizia o la si coltiva davvero, come un fiore di serra o evapora come neve al sole. Junichiro seppe dal giornale della sua morte: si era spento, per una polmonite, nella sua Cardiff, nell’autunno del 1967. Lesse ad Erika, con la voce spezzata dal pianto, le sue ultime parole, ironiche e struggenti Vivere sarebbe bellissimo se solo si riuscisse  a vivere.

Il Giappone uscito dalla crisi postbellica e diventato nei decenni una delle più grandi potenze economiche mondiali aveva, nella sua sfacciata prosperità, aspetti che l’ormai anziano ma vivacissimo Kawasasaki detestava, come il rampantismo di tanti uomini e donne in carriera, l’aggressività di un capitalismo spietato, la mercificazione di tutto, l’omologazione degli abitanti, tutti uguali, tutti protesi verso l’occidente, anche nell’aspetto fisico,  fino, nei casi estremi, a cercare, con la chirurgia estetica, di farsi correggere il taglio a mandorla degli occhi. Lo facevano soprattutto le attrici e le modelle, che se lo potevano permettere, ma evidentemente era un miraggio ben radicato nell’immaginario collettivo. L’antico Giappone sopravviveva solo nelle parate folkloristiche, nei pacchetti turistici da offrire ai viaggiatori estasiati, negli spettacoli teatrali o nelle feste: paccottiglia, cartapesta, cianfrusaglia. La televisione era volgare e aggressiva, come i cartoni animati tanto venduti all’estero e che per lui erano inguardabili. Infatti li proibiva sistematicamente ai suoi nipoti. Quando gli capitava di passeggiare per le strade sempre più trafficate di Tokyo o di viaggiare nei treni superveloci e avveniristici di cui la sua gente andava tanto fiera, era estasiato e disgustato al contempo. Gli pareva miracoloso che si fosse arrivati a tanto, che si producesse la miglior tecnologia al mondo, che fosse stato sconfitto l’analfabetismo e la popolazione avesse uno standard di vita elevatissimo, il migliore del continente asiatico; ma sapeva anche quali costi umani tutto quel benessere aveva preteso e come, al solito, a pagare fossero stati sempre i soliti, i più deboli, talvolta i più onesti e sensibili. Conosceva l’alto tasso di suicidi del suo Paese, specie fra i giovani, a causa di una scuola-caserma dove o si era psicologicamente corazzati o si soccombeva; non ignorava lo sfruttamento di una classe operaia sempre a capo chino sul lavoro, col minor numero di ferie annuali tra i lavoratori dei paesi sviluppati e con ritmi sostenutissimi. Di questo scriveva, di questo parlava. Per questo era un guru, che rammentava ad un popolo sempre più drogato dal materialismo i veri valori dello spirito. Il suo humor era caustico, ma arrivava, centrava il bersaglio. Qualcuno lo odiava ma i più lo amavano. Che poi cambiassero stile di vita è utopistico crederlo. Però l’ascoltavano: era il loro grillo parlante, era la loro coscienza sporca che non si ribellava al sopruso e preferiva il torpore del benessere.

Nel 1988, ormai novantenne, gli fu conferito un premio prestigioso, a riconoscimento del suo impegno civile, della sua umanità schietta e vigorosa: era il Yamazakura book Prize e lo ricevette per il saggio La fioritura, la geisha e Goldrake.

 

Junichiro ed Erika vissero altri otto anni, sempre più curvi e sofferenti nel corpo, ma con una mente lucidissima, come un cristallo di rocca, attorniati dall’affetto di figli, nipoti e bisnipoti, stimati e venerati da tutti. Lei non usciva più, raccontava favole ai bambini e seguiva dalla finestra il corso del sole nel cielo. Rifletteva, seguendone attentamente il cammino, come esso fosse simile a quello di ogni creatura umana: una nascita, un percorso più o meno faticoso tra nuvole pesanti di pioggia o leggere di vento e un tramonto splendido o sottotono. Lei era a quel punto, ormai, ma si sentiva molto fortunata: aveva avuto una vita lunghissima, difficile in alcuni tratti, ma piena di soddisfazioni e d’amore; e soprattutto aveva avuto quasi sempre al suo fianco un uomo buono, intelligente, coraggioso, che l’aveva presa per mano bambina e ancora le stava vicino. Per non parlare della bella famiglia che aveva creato con lui: aveva seminato, come tutti, ma il raccolto era stato abbondante, insperato. La sua presenza su questa Terra aveva avuto un senso, ora poteva andarsene in pace, in punta di piedi, come aveva sempre camminato. Da un po’ di tempo amava indossare al mattino il suo kimono più bello, per accogliere come si deve la Vecchia Signora, così paziente con lei.

L’aiutava il marito a indossarlo, che non si lamentava di quella bizzarria, ma anzi l’assecondava, perché comprendeva.

Junichiro, dal canto suo, non ce la faceva invece  a restarsene in casa tutto il giorno: anche se procedeva  a passettini, non rinunciava alla sua passeggiata mattutina, in compagnia della tartaruga. Gliel’avevano regalata i nipoti, un anno prima, poiché si lamentava della sua lentezza: “Ecco, nonno, vedi, lei va sempre piano, eppure è giovane e forse impaziente di correre! Ma forse sa che così arriva ovunque, in sicurezza…” Quelle parole gli erano piaciute e aveva deciso di fare di quella piccola creatura la sua compagna di viaggio.

Da allora, per le strade di Ginza, erano stati i benvenuti. Mentre camminava, rifletteva, come Erika alla finestra, sui giorni passati e li trovava…pieni e tanti, come un granaio ricolmo. Che generosità gli aveva dimostrato il destino!

Aveva vissuto intensamente, aveva dato e ricevuto amore: possibile pretendere altro?

Sì, forse sì, andarsene insieme a sua moglie, addormentarsi con lei e svegliarsi altrove, di nuovo giovani e pieni di vita…Erika con lo chignon nero, sotto una pioggia di petali bianchi.

Quel 3 novembre, come tutte le mattine, la figlia aprì la porta dei suoi vecchi genitori, pensierosa per non aver scorto alla finestra il consueto profilo della madre e non aver incontrato suo padre con la tartaruga, nel marciapiede sottocasa.

Il soggiorno era ordinato e vuoto. Allora aprì la porta della camera, immersa in una lieve luce autunnale, dato che le tende non erano state accostate: li vide sdraiati, per mano, vestiti dei loro abiti migliori, sul viso una serenità indicibile. Solo per un attimo pensò che dormissero; li toccò tremante e avvertì soltanto una leggera tiepidezza.

Quel che la stupì fu il profumo dolciastro delle mandorle amare. Una lama le attraversò il pensiero: da qualche parte aveva letto che è il tipico odore dell’avvelenamento da cianuro. Ma poi, con incredibile sollievo, si ricordò che solo qualche giorno prima, aveva portato loro il dolce che preferivano: una torta alle mandorle amare.

MGC

 



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