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L'albero di neve

Da Vulvia

(Un racconto tratto da L'alone grigio,Vallecchi, Firenze 1969. Furon vendute 741 copie. Si lo so che è un po' lungo da leggere, ma chi ama questa scrittrice saprà arrivare fino all'ultima riga non lamentandosene.)

L'albero di neve

Sabato scorso, mentre cominciava a venir giù la prima neve, e cioè verso le cinque del pomeriggio, mi trovavo alla Stazione centrale per accompagnare una persona al treno. Sul momento non mi accorsi neppure che nevicava, ma, tornata indietro, mi parve che qualche cosa, nell'aspetto e il colore del Piazzale prospiciente la Stazione, fosse lievemente mutata. Il piazzale era il medesimo che tutti possiamo vedere in qualsiasi ora del giorno e della notte, col grande albergo sulla destra, sormontato da una cupola schiacciata, e, sulla sinistra, le rotaie dei tram che portano al centro, e i varii caffè dalle vetrine illuminate, dietro cui s'intravedono, in un vapore bianco, i rossi e i gialli delle bottiglie di liquore. Ma - e me ne resi conto solo dopo qualche momento - i caffè, benché aperti, erano del tutto bui e deserti, e tram non ne passavano, neppure il più leggero scampanellìo. Pensai che doveva essere mancata la corrente, in quella zona della città e forse anche altrove, e mi disposi a rincasare a piedi, profittando del fatto che l'albergo non era lontano, e non faceva freddo.

Mentre così cercavo con lo sguardo, un po' stordita, la strada (almeno dieci se ne aprono in quel punto,) ecco l'indistinta sensazione di poco prima, che qualcosa di anormale sia accaduto, riaffacciarsi e prendere le proporzioni di un turbamento. Questa dove mi trovavo, non era Milano, più di quanto Amleto e Ofelia siano cittadini inglesi. Le case dall'aspetto mediocre che nascono dalle molte strade intorno al piazzale, avevano un'evanescenza, un pallore straziante. Sembrava che le mura rilucessero di un bagliore interno, non più illuminate da alcuna stella e neppure da qualche raggio proprio al nostro mondo. «Dev'essere sempre così, in certe ore dell'anno» mi dissi « e il fatto che ne ne accorgo può essere spiegato con una particolare debolezza dei nervi.» Entrai in Via P., dalla quale poi, attraverso la Piazza Grande, avrei dovuto raggiungere il mio albergo. E, camminando rasente i muri, mi sentivo di nuovo stranamente intenta, come persona alla quale sia stata comunicata, poco prima, una notizia importante, relativa alla sua vita. Ma che notizia fosse, per la verità, non mi ricordavo, così che quella calma poco alla volta tornò a incrinarsi e scricchiolare, come una lastra di ghiaccio sotto la quale mormori e fugga un'acqua calda e nera. « Vediamo» mi dicevo. «Albergo, tutto bene. I conti, saldati. Lavoro da fare domani... bene. Vediamo che altro.» Ed ecco, improvvisamente, afferrai la ragione del malessere che mi aveva colta all'uscita della stazione. Tale malessere risiedeva in un fatto banalissimo e tuttavia allarmante: io non mi ricordavo più chi avevo accompagnato alla stazione. «Niente di più normale» cominciai a dirmi dopo un attimo di riflessione. «Quando siamo molto affaticati, anche il nome del mese in cui ci troviamo, o della stagione, può uscirci di mente. Forse non era neppure un nome importante. Comunque, me ne ricorderò fra poco.» Volevo dare una spiegazione razionale alla cosa, ma, dal momento che l'avevo individuata, non mi sentivo affatto in pace, e avrei detto che un topo, infilatosi nel mio vestito, e giunto vicino al cuore, lo mordicchiasse teneramente, e poi con più ardire, in profondità. Alla fine, morse là dove batteva la vita, e io provai uno strazio altissimo. Il topo fuggì. Lo vidi proprio correre davanti a me, attraversare la strada silenziosa e rifugiarsi sotto il marciapiede, da dove mi fissava con uno strano luccicore nelle pupille piccolissime. Benché il dolore fosse ancora orribile, e la bestia là, io mi rifiutavo di ammetterlo. «Il tempo cambia davvero» mi dissi. «Ecco una fitta ammonitrice. Prenderò del rum bollente, appena rientrata.» Cominciavo a sentir freddo, ma con una bella indifferenza guardavo in alto qua e là, spiando quegli edifici dall'aspetto morto e pure irrorati da un vago barlume d'alba, un riflesso incerto, quelle facciate dove non una finestra, una porta si aprivano per lasciar intravedere un volto, un lume, e dove non suonava una voce né un rumore anche quieto di passi. «Dormono tutti, a quest'ora, a Milano» continuavo a raccontarmi. «E' una città di operai. Vanno a letto presto, la sera.» In quel punto, un orologio da una chiesa lontana, un orologio che non sembrava certo di questo mondo, e i cui colpi battevano accompagnati da una musica nitida e grave, suonò le cinque e due quarti. « Ecco un orologio che si è incantato» mormorai dopo un poco. Giunsi così ai Giardini, e qui mi accorsi che nevicava veramente, molto. La neve cadeva dal cielo come un turbine luminoso, e, a fissarla, sembrava che risalisse continuamente in alto. Saliva e scendeva. Come era bella! Non toccava terra, sfiorava appena, coi suoi fiocchi larghi e trasparenti, i rami di certi alberi, e dileguava. Sembrava una mano che voglia scrivere una cosa immensa, o accarezzare una fronte, e continuamente si penta, tremi, svanisca. Si provava un desiderio vago e profondo di sentirsi rapiti in quella veste di luce, staccarsi dal nero suolo e fuggire dove tutto è serenità, musica, gioia. Ah, perché non poteva essere? C'era una panchina, dove m'inoltrai. Mi sedetti, e stringendo intorno al viso il bavero alzato del cappotto, rimasi quietamente a guardare. In quell'andirivieni del turbine bianco, in quella calma magnifica, come se un tappeto di velluto bianco andasse avvolgendosi in fretta intorno al mondo, sentivo un'eco armoniosa e remota di quell'orologio, un canto di ore. Io andavo ricordandomi di molte cose, ma senza febbre: rivedevo mia madre e mio padre, le mattine di sole nel giardino, ascoltavo il rumore incessante del vento di marzo sulla collina. A un certo punto, tutte queste immagini e suoni di luce sparvero, mi rividi nella mia stanza d'albergo in questa città, mentre mi preparavo ad uscire e spegnevo tutte le luci... Sì, tutte le luci si spensero improvvisamente, e di nuovo provai una grande confusione nella mente, e quel senso di un dolore brutale al cuore. Qualcosa doveva essere accaduto, non c'era dubbio. Ah, che cosa avrei dato perché nessuno me lo ricordasse, perché tutto rimanesse così, senza forma né nome. Mi alzai dalla panchina e, vacillando, fissando lo sguardo, come potevo, davanti a me, mi diressi dove pensavo fosse l'uscita. Ma l'uscita non c'era più, o almeno non si vedeva a causa della neve ch'era caduta. Molti alberi, invece, si vedevano: uscivano quasi dal suolo con le loro radici nere e contorte, e alcuni sembravano uomini che, privi di tutto, alla fine della loro vita, rannicchiati contro un muro piangono. E su questi esseri, in un silenzio puro, assoluto, la neve continuava a scendere. Io camminavo in mezzo ad essi, e avrei detto che, tacitamente, al mio passaggio, si scostassero. Mai, nei Giardini, avevo saputo si trovassero tanti alberi, e così sensibili. La loro vista cominciava ad opprimermi, a spaventarmi. Perché soffrivano? Io stavo bene, molto bene. No, non era per me. « L'albergo dovrebbe trovarsi da questa parte» ricominciavo a dirmi con assurda intensità. «Le finestre saranno naturalmente al buio, ma l'atrio illuminato e pieno di gente. Ecco Corrado, Daniele, la bella Iris, gli altri.» Un cartello, di grandi dimensioni, simile in tutto a quelli che si rincorrono sulle autostrade, stava in cima a un paletto infisso nel terreno, e su questo cartello, a lettere gigantesche, di un verde brillante, io vidi scritte queste parole: « SILENZIO. SPARITI. TRANQUILLITÀ.» « Spariti» era la parola che fissavo più di ogni altra, abbagliata. Essa svegliava degli echi e dei sospetti così profondi nel mio cuore, che un vero terrore succhiò il caldo della mia fronte, e per un attimo l'immobilità stessa e io ci abbracciammo. « E ancora» mi dissi a un tratto, uscendo da quell'orrore con un sospiro, « ancora s'insiste a collocare cartelli sui prati, come se non fosse provata la loro inutilità...» E, così dicendo, gli occhi pieni di lacrime di cui non v'era alcuna ragione, mi andarono lontano per un largo spiazzo dove, una volta, c'era stato un monumentino a Cavour. Il monumentino non c'era, ma, al suo posto, un altissimo albero scintillante. Questa volta non mi dissi nulla ma, scuotendomi, ma respingendo l'angoscia che urtava come un uccello impazzito contro le pareti del mio cranio, cercai di vedere in quel solitario altissimo albero di ghiaccio che mi sorgeva davanti, solo un artificioso e puerile albero di Natale. Ma, su quei rami non era che ghiaccio, anche il tronco era coperto di ghiaccio, e la vetta, né vi brillava altra luce che non fosse di ghiaccio. Qua e là dal bianco, uscivano certi unghioli acuminati, del cupo azzurro che ha il ghiaccio, e splendevano. Una suprema necessità di ignorare il senso di quanto accadeva, mi spinse fin sotto quell'albero per ammirarne, come qualsiasi cittadino, l'invernale trasfigurazione, e stavo lì, sorridendo e piena insieme di freddo e dolore, quando l'albero si mosse, e così carico e scintillante del suo gelido peso, si piegò a sfiorarmi la fronte. Arretrai, e quella creatura si mosse ancora. Le sue radici erano uscite dalla terra, come zampe, si muovevano debolmente in mezzo alla luce della neve. Si muovevano per seguirmi. Questo era un sogno, naturalmente, benché orrido sogno. Per cui, affrettando come potevo il passo verso il luogo dove immaginavo fossero i cancelli del Giardino, mi misi a ripetere le eterne, monotone storie: «Lavoro, bene; domani, domenica...; telefonare Corrado...; vediamo che altro.» Mentre dicevo questo, nella mia mente indebolita e sommersa, ecco questa apparizione di ghiaccio e di rami strisciare a me vicina con le sue povere radici, ed emettere un suono così vario e profondo e simile nell'insieme al racconto di una vita umana, che voi non l'avreste udito senza piangere. « Ma scricchiolano davvero questi rami» mi dicevo nella mia ostinata ansia di mentirmi, « ma mai avrei detto che fosse come metallo, la neve. Certo, questo albero è divenuto così leggero, che come una foglia il vento lo trasporta, mentre imprime ai suoi rami un così incantatato rumore...» Mi misi a correre, così dicendo, verso i cancelli, ch'erano là, li vidi, di fronte a Via Boschetti. Uscii sulla strada, e sempre parendomi di sentire alle spalle quella soprannaturale creatura di ghiaccio, mi fermai perché il cuore stava per rompersi. E vidi che l'albero non c'era più. Allora, in salvo, provai un mite desiderio di rivederlo e sentirlo, come se in quella luce e in quel dolore fossero nascosti il segreto, il nome, la cosa, tutto ciò di cui io ignoravo la natura, per cui il mio cuore era impazzito, quella sera. E l'albero non lo rividi. Ecco invece Porta Venezia, ecco il Viale Vittorio Veneto, e ancora il lato alto dei Giardini, l'albergo. Davanti a questo grande e moderno edificio di diciotto piani, ferito da oltre mille finestre, mi fermai, e mentre esclamavo «Finalmente», con la voce incrinata da un rimpianto e un sospiro per una verità alla quale mi ero sottratta, che avevo avuto timore di guardare in volto, qualcosa di straordinario mi colpì. Sul davanti dell'atrio, dove di solito sta in piedi un piccolo lift, e vanno e vengono gli amici miei, sul davanti dell'atrio tutto illuminato e deserto, due cardellini della grandezza di una figura umana erano appollaiati su un ramo coperto di neve, che fuoriusciva dal muro sopra la vetrata, quasi tutto il muro fosse terra, e l'albergo un dimenticato giardino. Fissi, lucidi e malinconici erano i loro piccoli, rotondi occhi neri, e un canto acuto e non so se più dolce o pieno d'affanno, un canto che diceva la tenerezza e l'addio, la speranza dei boschi e il dubbio, una gioia assediata dal freddo e dal nulla, usciva dai loro becchi immobili. Morti erano quegli uccelli dalla fronte di fuoco e le ali gialle e nere, seduti sulle zampe sottili, di una materia che sembrava oro, morti, già freddi sotto le piume di seta. Il loro canto, memoria. E, davanti alla loro grazia e morte, io compresi a un tratto perché la città era spenta, perché il topo mi aveva morso il cuore, perché l'albero pieno di ghiaccio si era strappato alla terra per farmi compagnia, cantando storie del passato. Compresi chi avevo accompagnato alla stazione, e chi erano queste due meravigliose ombre di uccelli. Compresi anche che la mia giovinezza , che io mi sforzavo di dimenticare con tani: « bene... vediamo... i conti... bene... domani...», la mia giovinezza, e tutto ciò che anche voi avete perduto, era dovunque, stanotte, ritornata; e intimidita, piena di singhiozzi, correva come una fanciulla su questa povera terra. Anna Maria Ortese

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