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L'Italia è un paese di santi, poeti, navigatori, e da qualche mese anche di "discontinuisti" e di "mettitori di faccia"

Creato il 10 giugno 2014 da Tafanus

TafanusMai nella vita avrei pensato di poter leggere con piacere, e consentendo completamente o quasi, un articolo di "Pigi" Battista, detto anche il "CerchioBattista". Oggi mi è capitato. Era un pezzo che avvertivo un fastidio, crescente ma indistinto, verso coloro che ormai anche quando vanno al cesso "ci mettono la faccia". E che anche se passano per un giorno dalla pasta Barilla alla pasta Voiello si precipitano in TV, a "talk-shows unificati", per elogiare il loro proprio "discontinuismo". Il "discontinuismo", cioè la versione "politically-correct" della rottamazione. Che Renzi e co-rottamatori stiano iniziando a capire che gli italiani hanno più simpatia per i carrozzieri che per gli sfasciacarrozze? Riporto quindi con piacere l'editoriale odierno di "Pigi" Battista, che ha de-scritto, molto meglio di quanto non saprei fare io stesso, il mio proprio fastidio... Tafanus

Megafono

I luoghi comuni del gergo politico italiano sono misteriosi come le barzellette: si diffondono a una velocità impressionante, ma non si sa mai dove nascano e perché proprio in quel momento (di Pigi Battista)
Fatto sta che a leggere le interviste dei politici oggi alla ribalta, da Alessandra Moretti del Pd a Barbara Spinelli della tempestosa Lista Tsipras, sembra che sia scoppiata l’epidemia della «discontinuità». Tutti all’improvviso hanno scoperto la «discontinuità», invocano la «discontinuità », diventano testimoni della «discontinuità », malgrado il loro eccellente cursus honorum all’insegna della continuità. Ora vogliono, desiderano tutti insieme la «discontinuità». Fino a ieri ci «mettevano la faccia» di qua e ci «mettevano la faccia» di là. Sempre tutti insieme, perché la peculiarità del luogo comune politico che va di moda è che ad usarlo siano tutti insieme. Che saranno pure «discontinui» e ci «metteranno la faccia» temerariamente, ma restano pur sempre dei conformisti.
La Prima Repubblica produceva formule politiche con lentezza ma inesorabilmente. Le «convergenze parallele» restano testimonianza imperitura di una stagione in cui la politica se ne stava in un iperuranio di incomprensibilità, ma in cui le parole erano parte integrante di una liturgia. La liturgia dell’«arco costituzionale», il rito pagano del «governo balneare», la tentazione del «rimpasto», i significati occulti della «fedeltà atlantica», la magia della «verifica», l’attesa spasmodica del «governo di decantazione», i preliminari voluttuosi del «preambolo». Nella Seconda Repubblica, fino alla «discontinuità» attuale che forse ci traghetterà nella Terza, oppure nel niente, invece le logore formule della gergalità politica vuota e magniloquente sono diventate di rapidissimo consumo. Si immettono a getto continuo nel mercato dei luoghi comuni per poi scomparire con la stessa velocità con cui sono comparsi.
Il «governo del cambiamento» era il puro vuoto: usarlo significava dirsi disposti per il Pd a fare il governo insieme ai grillini, che di lì a un anno (cioè adesso) sarebbero diventati «squadristi». Nel lessico legnoso del centrodestra a un certo punto prese a usarsi senza misura il termine «responsabile». Che nel linguaggio corrente significa semplicemente essere e comportarsi con senso di responsabilità, ma che in quel lessico significava essere come l’onorevole Scilipoti, «responsabilmente» disposto a tenere in piedi un governo senza maggioranza parlamentare.
Sparito il «tavolo delle regole» che ha ammorbato per un paio di anni un dibattito politico sempre alla ricerca di formule da usare ossessivamente, restano impavide le «regole». Appena scoppia un caso giudiziario, cioè sempre, ecco l’invocazione immancabile delle «regole».
Fino a un momento prima si reclamava la semplificazione delle leggi, un minuto dopo ecco la richiesta di nuove «regole», che poi, in uno Stato moderno, altro non sono che le leggi. Ma non importa: lo scopo di un gergo è di confermare l’appartenenza a un gruppo, non la necessità di dire qualcosa di sensato.
«Metterci la faccia», che ha dominato il territorio («i territori», altra orribile espressione gergale) dei luoghi comuni, vorrebbe dire più o meno «esporsi», «non tirarsi indietro». Ma nella neo lingua è più un modo per comunicare di essere del gruppo, un metterci la faccia per dimostrare di essere tra quelli che possono dire «metterci la faccia».
«Discontinuità» è invece figlia di un’epoca che vuole novità. La logica del gergo prevede che si tenga conto di questa impellente necessità anagrafica. E infatti colpisce che mentre nel Pd, all’indomani dei ballottaggi non esaltanti, si invochino «facce nuove», anche in Forza Italia, dopo la batosta, che cosa si richiede? Anche qui: «facce nuove». Facce da «discontinuità». Ma quanto reggerà la «discontinuità»?
C’è chi prevede almeno il passaggio dell’estate. Ma quando esplose la moda del «divisivo», la scomparsa repentina del nuovo termine dimostrò l’estrema fragilità delle parole del gergo. Resiste coraggiosamente il suo opposto, il «condiviso». E non c’è «tavolo delle regole» all’insegna della «discontinuità» dove, «mettendoci la faccia», si richieda la «condivisione» di qualcosa. Torna invece prepotentemente, anche per effetto delle inchieste giudiziarie, la ripulsa del «Sistema». Una volta il Sistema era il bersaglio delle proteste giovanili, oggi delle carte dei giudici che indagano sul Mose. Non è più «la cricca», e nemmeno «la cupola». Però si accompagna alle «disponibilità», che sarebbero i favori elargiti non in denaro. Disponibilità che fa rima con discontinuità, ma che con discontinuità non dovrebbe avere nulla a che fare. Ma c’è bisogno sempre di nuovi luoghi comuni. Con la fine delle elezioni europee, scendono le quotazioni del gergale «populista» e anche la «deriva plebiscitaria» non se la passa affatto bene.
Bisogna trovare nuove parole. Che segnino, almeno per un po’, la «discontinuità». Mettiamoci la faccia.

0906/0630/1800


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