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Storia semiseria di chi non ci ha fatto sognare

Creato il 28 maggio 2015 da Speradisole

STORIA SEMISERIA DI CHI NON CI HA FATTO SOGNARE

Una squadra di potenziali leader. L’uscita dal gruppo Pd di Civati fa pensare a tutti quei politici, ora marginali e impotenti, di fronte a chi li ha sconfitti, ma che hanno avuto un momento di gloria in cui sembravano “l’alternativa”. Quasi sempre sono rimasti vittime di se stessi. Da Civati al maestro Fausto Bertinotti, storia semiseria del velleitarismo della sinistra più chic che radical.

Pippo Civati esce dal gruppo parlamentare del Pd. Lo sappiamo, il tipo è impulsivo: solo per questo passo ci ha messo due anni. Belloccio, brillante, pieno di buone intenzioni e anche con un certo rigore. Sembrava lui il fenomeno quando alla prima Leopolda, affiancava Renzi. Un talento, uno su cui puntare. Destinato a un’aristocratica irrilevanza per un cumulo di decisioni sbagliate, di piccole grandi paure, di sopravvalutazione mediatica e politica del suo peso. Da parte di tutti.

Vedendo Civati, vengono in mente i tanti leader minimi della sinistra italiana che hanno fatto sognare il popolo progressista. Per quei quindici minuti che hanno permesso a qualcuno di votarli, di esaltarsi in una manifestazione organizzata, di volantinare per le consultazioni politiche che li avrebbero incoronati, per mordersi poi il fegato quando sono stati fregati dai babbioni della vecchia politica. Una squadra di calcio del “vorrei ma non posso” o “potrei ma non voglio”. Vittime soprattutto di se stessi, ma anche di chi non ha esitato a passeggiare sulle loro ambizioni.

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1. Fabrizio Barca. Uno di quegli abbagli che solo la sinistra borghese, quella che lo è mentre sfrutta i propri operai peggio di un Ceo delle corporation americane, sa prendere. Privo di un vero carisma, con lo sguardo sempre perso verso un orizzonte in cui finisce la prosa del suoi programmi-rivoluzioni di carta, più simile alle interviste impossibili del “Mai dire gol” di un tempo che ai comizi dei leader veri. Lo hanno spedito a monitorare i circoli di un Pd devastato dalla morte della politica e da Mafia Capitale. Elegantemente velleitario, è crollato prima di diventare una speranza.

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2. Nichi Vendola. Gabriele Oriali ha vissuto una  vita da mediano. Nichi da mediatico: sempre in sella, sempre da perdente di successo. Solo in Italia uno che inanella sconfitte persino in casa  – nella Rifondazione Comunista che affondava pensarono bene di allearsi le minoranze più disparate per preferirgli Paolo Ferrero – riuscendo solo a sconfiggere, nella sua Regione, uno più perdente di lui, Fitto che temeva Divella e Boccia, può mantenere una fama come la sua. La cosa  migliore che ha fatto per l’Italia è stata la politica culturale pugliese e l’essere stato imitato da Checco Zalone. La peggiore quella di aver ucciso la sinistra, riassumendo in sé sogni di riscossa che non era pronto a cavalcare. Poeta, anche lui con una prosa che va ben oltre quella zeppola che ormai amiamo, molto empatico. Ma straordinariamente evanescente. Impossibile non amarlo, suicida votarlo per anni. Mister tre per cento è il maestro della sintesi politica estrema, opposta alla sua prolissità verbale: a ogni elezione si diluisce e annette qualcos’altro. Arcobaleno, Tsipras, il Pd. Però poi magari rinnega Gennaro Migliore che affronta con realismo e coerenza questo viaggio, senza credere ancora in una sinistra che prende più voti nei quartieri ricchi che nelle periferie. Un giovane vecchio mai maturato. Un Peter Pan brizzolato e in guerra con le esse e le zeta. Da sempre schiavo della narrazione.

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3. Marco Furfaro. Ecco, lui di rimpianti non può averne tanti. Se non quello di essersene stato buono mentre gli camminavano sopra con gli scarponi da montagna. Under 35 che da anni fa politica con passione e vivacità, capace di prendersi una bella e qualificata vagonata di voti alle ultime Europee, dopo tanto tempo passato a far legna, si è visto sopravanzare da Barbara Spinelli. Figlia di Altiero, giornalista che nobilmente disse “mi candido con Sel, ma non andrò a Strasburgo”. Da figlia di cotanto padre, allora mancò di rispetto all’istituzione che il genitore contribuì a far nascere. Da eletta, pensò bene di operare un ridicolo voltafaccia con cui, alla fine, al Parlamento Europeo, andò. Fregando proprio il buon Furfaro, tra i pochi candidati spinti da un certo entusiasmo popolare. La lista Tsipras (Sel e soci) seppellì, con il suo siluramento, le sue residue velleità di rappresentare una minoranza davvero radicale. Dimostrandosi solo inquilina delle terrazze chic, di quelle che ha saputo raccontare Ettore Scola. Furfaro, non reagendo con rabbia e decisione, sotterrò la possibilità di crescere e sfruttare la disavventura a suo favore.

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4. Pippo Civati. Morettiano (nel senso di Nando non di Alessandra), nel suo “mi si nota di più se non vengo, o se vengo e rimango in disparte?”, è capace di stordirti con un post sul suo blog e di disperdere un patrimonio di consensi trovato tra congresso e primarie, in un abbandono, un tira e molla che neanche Booke e Ridge in Beatiful. Per spiegarti che è uscito dal gruppo, sente il bisogno di tirare in ballo la teoria delle stringhe e dei mondi paralleli, così da giustificare le sue acrobazie impercettibili.  Il tutto con la necessità di interpretazioni autentiche di filologi particolarmente preparati. Il ragazzo si impegna, è bravo, ma essere stato superato e doppiato da Renzi lo ha distrutto.

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5. Sergio Cofferati. Lui è un genio vero. Autolesionista con brio. Capace di diventare un simbolo della lotta all’art.18 dopo essere stato in un’estate degli inizi degli anni ’90 uno dei controfirmatari di tutti quei contratti atipici che hanno reso precarie almeno due generazioni. Dopo quel 23 marzo 2002, tutto sembrava possibile per l’eroico cronometrista della Pirelli, il paese è ai suoi piedi. Le donne progressiste lo trovano persino sexy. Lui, come molti prima e dopo di lui, si fa fregare da D’Alema e soci, facendosi spedire a Bologna a fare il sindaco. Diventerà una sorta di sceriffo e finirà, quest’anno, per perdere le primarie in Liguria e a protestare, gridando ai brogli, per poi uscire dal Pd.

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6. Maurizio Landini. Sindacalista anche lui, abbastanza moderno da uscire dall’ossessione per i contratti a tempo indeterminato e i diritti acquisiti che hanno tutti i suoi colleghi. Uno che il precariato l’ha per lo meno studiato  e capito. Unico vero avversario di Renzi, capace di parlare in tv, con un’oratoria e una capacità di rivolgersi a pancia e cervello della gente, niente male. Il problema è che è convinto che la sua efficacia in talk televisivi logori, possa essere tradotta  in consenso elettorale. Pensa a “Coalizione sociale”. Un nome così brutto è destinato al fallimento, ce lo racconta già il crollo di Ingroia, che si intuì fin dal momento in cui si inventò “Rivoluzione Civile” . Già, perché i leader minimi – Landini è stato battezzato con un misero 2% saggiando nei sondaggi di fronte alla sola eventualità di una discesa in politica – hanno un grande talento: scegliere i nomi, ai loro movimenti, di rara bruttezza. Il suo momento più alto? Le felpe con su scritto FIOM: idea rubata a Lapo e contesa da Salvini. Tanta roba.

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7. Antonio Ingroia. Magistrato. Politico. Esule in Centro America. No, scherziamo, ci si è mandato da solo a quel paese, in Guatemala, per poi non andarci dopo averci spiegato perché doveva andarci assolutamente. Sì, un po’ come la storia di Walter Veltroni in Africa. Ha ripiegato su Aosta e, dopo la decadenza, su Trapani, come commissario della Provincia su incarico di Crocetta. Allora, ricapitoliamo: ha combattuto la mafia. Fino a processi così temerari, come quello sulla Trattativa Stato-Mafia, da consigliarli un “buen retiro” in politica, dove Fatto Quotidiano e giustizialisti vip, lo aspettavano a braccia aperte. Ha combattuto per un’Italia migliore. Per qualche mese, fino a elezioni disastrose. Poi è diventato avvocato delle vittime della strage di Via dei Georgofili, parte civile in un processo in cui era già stato coinvolto come magistrato. Incarico per cui ha subito una revoca. Praticamente un Superman con la kryptonite sempre in tasca. Capace di sbagliare tutto senza neanche accorgersene.

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8. Fausto Bertinotti. Forse il padre, se non il nonno, di tutti questi campioni. Di sicuro il capitano, il punto di riferimento, colui che ha saputo inventare la tipologia del “leader minimo”. Salottiero e raffinato, con il difetto di pronuncia necessario  e una tendenza alla supercazzola di classe, soprattutto in tv. Ha ucciso la sinistra, il centrosinistra, i postcomunisti, i no global e anche due, tre premier, se non statisti, troppo ottimisti sulla sua tenuta al governo. Un situazionista, un  artista, uno che è entrato nella Storia riuscendo a fare persino il presidernte della Camera dei Deputati. Sognava il comunismo, la rivoluzione delle masse, ma l’unico che ha giovato del sole dell’avvenire, è lui stesso. Ma almeno lui un bel po’ di voti, li ha presi. Lui leader vero non è mai diventato per scelta: capiva che era più divertente il ruolo del sabotatore brillante.

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9. Renato Soru. Uno tsunami. E non perché sia travolgente, piuttosto per le sue capacità distruttive. Lo si è accolto come un Ross Perot italiano, come un Bloomberg progressista. Imprenditore di successo nell’economia 2.0, è riuscito a diventare un  Re Mida al contrario. In  Sardegna ricordano l’era del suo “regno” con terrore, una sua sconfitta ha privato il centrosinistra del capo migliore avuto negli ultimi anni: Walter Veltroni, che rassegnò le dimissioni proprio per la disfatta sarda, il cui progetto poi è stato percorso, a modo suo, da Matteo Renzi. Non contento, dopo aver dato un colpo mortale alla sinistra, si è preso uno dei suoi simboli, l’Unità. Un disastro anche lì. Alla fine, ha chiuso. E la sua Nie, fallendo,  neanche ha difeso i giornalisti che ora si ritrovano le case pignorate per le querele in cui nessuno veniva pagato per andare a difendere gli imputati. Soru fa sembrare Bersani un  uomo fortunato e di successo.

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10. Luigi De Magistris. Magistrato. Eccone un altro. Poi politico e sindaco decaduto e poi tornato in sella, è uno di quelli che ama il ruolo di caudillo, tutto oratoria verace e nemici veri e immaginari. Adora i proclami e dipingersi come accerchiato, è stato uno degli eroi della rivoluzione arancione. Sì, quello splendido movimento che avete capito cosa fosse quando già i sindaci che avevano conquistato le grandi città, vi annoiavano a morte. Proprio quella. Ma dare in Italia un colore a un movimento, è il primo sintomo dell’irrilevanza: dal popolo viola agli arancioni, è difficile trovare qualcosa di abbinabile, si sa, alle tonalità della politica italiana che incontra la società civile, per cannibalizzarla. A Napoli ha provato anche a migliorare le cose, ma con una città in default era difficile. Ora prova a rimodernare il San Paolo con De Laurentiis. Le sue speranze di rielezione sono affidate a questo. E all’Europa League. Nel capoluogo campano, ormai, lo amano quanto il portiere Rafael Cabral. Ma lui ci spera comunque.

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11. Pancho Pardi. Chi? Eh, lo sappiamo, anche noi abbiamo faticato a ricordare. Dietro Nanni Moretti a San Giovanni, quando un milione e rotti si erano visti per il Girotondo, un altro di quei movimenti che hanno illuso la sinistra, in questo caso era la volta del vento rivoluzionario della società civile: un’entità che in Italia, di solito, va tradotta in demagogia mascherata, non essendoci né società né civiltà, c’era lui. Uno che è la fotografia del velleitarismo dei leader minimi: movimento studentesco del 1968, fino al ’72 in Potere Operaio, poi una pausa politica  e tanta università fino ai Girotondi, Palavobis e Italia dei Valori. L’unica cosa davvero rivbelle, in lui, è la capigliatuira. Struggente nel suo antiberlusconismo.

(Liberamente tratto da un articolo di Boris Sollazzo del 6 maggio 2015 su Giornalettismo.com)



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