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La casa sull’acqua (Seattle)

Da Sfumaturemondiali

La casa sull’acqua (Seattle)

Era steso sull’intreccio del giallo e rosso in una fitta trama di disegni geometrici. Lo aveva comprato in Turchia quel tappeto. E ogni volta che aveva un problema ci si rifugiava e iniziava a vagare con la mente. 1997. Aveva sedici anni e detestava la sua adolescenza. Ripensandoci ora era stata come una successione di lividi sulla pelle, simili alle ammaccature sulla frutta. Era molto più giovane adesso che aveva superato i trent’anni, che allora.
La sua famiglia abitava in un anonimo condominio anni ’70 a nord di Queen Ann, sulla  14th Ave W. Aveva perso il conto di quante volte nelle sue orecchie erano risuonato i versi:

“If you wouldn’t mind, I would like it blew
If you wouldn’t mind, I would like it loose
If you wouldn’t care, I would like to leave
If you wouldn’t mind, I would like to breathe”

mentre attraversava, tornando da scuola, i corridoi di  quell’enorme scatola grigia che era la sua casa.
Cosa diavolo stava cercando di dirsi in quel pomeriggio piovoso sdraiato sul tappeto? Sentiva le gocce rimbalzare sul tetto  della casa e cadere nell’acqua, mentre lui rimaneva sdraiato al centro della stanza, con le braccia incrociate dietro la testa e gli occhi chiusi.

“You Can’t Stutter When You’re Talking With Your Eyes
By Cutting Out Your Tongue You Save Face
Feeding On The Blood Lets Running From A Big Day
Cry On Black Rain, Cry On Black Rain,
Cry On Black Rain.”

Diciotto anni e la Turchia, nell’agosto del ’99. Con Jeff,  Sam e le spiagge di Marmaris.
E l’incontro con  Kamile che gli rubò il ritmo della malinconia e lo catapultò in un’ossessione di note elettroniche della “disco”, sulla spiaggia.

“All I really want is one more day
to make you change your mind and want to stay
All you have to do is call my name
and I’ll come back again”

Quella sera spazzò via gli anni delle chitarre dalle corde autolesioniste e dell’ ”urlo” sofferto, stonato, incontrollato. Era il malessere dell’adolescenza che lo stava abbandonando.
Certo non era la Summer Love… Era solo l’ultima estate di un millennio… Erano le vacanze prima del College… Era Kamile e la sua strafottente e contagiosa voglia di vita… Come una memoria tattile si ricordò come le sue mani la mattina del giorno dopo erano scivolate sulla pelle ambrata di lei… Rimanendo a occhi chiusi sorride. In quel buio volontario riassapora l’energia che lo aveva violentato, fino a trasformarlo in uno zingaro, invaso dall’odore delle spezie, dal colore dei tessuti e dal profumo del kalumet. Il grigio del suo grunge era stato annientato.
Una rivoluzione personale dove aveva perso ogni disillusione sulla vita e iniziato a fare progetti. La sua fragilità a poco a poco era diventata forza.
Kamile così imprevedibile e non convenzionale, con il suo ritorno al “primitivo”, gli spalancò le porte della percezione, al pari di una droga.
“Let’s go!”, “Come on!”, “Hurry up!” erano le uniche frasi inglesi che Kamile sapeva, per il resto c’era la sorpresa!
L’hammam e la mano di Kamile che lasciava la sua… Ancora si ricorda uomini a destra e donne a sinistra… e il gigante che gli aveva fatto il massaggio… Quando era uscito l’incrocio delle mani sue e di Kamile gli era sembrato diverso, mentre correvano per raggiungere il ristorante sul mare e non perdersi il tramonto… Il barcone di quella notte e lei che parlava in quella lingua incomprensibile, poi lei aveva spalancato le braccia… Voleva fare come nel film… Lui aveva visto i suoi amici rotolarsi dal ridere… Ma il vento gli arrivò prepotentemente alle orecchie e zittì quelle risa sguaiate… Si sentì Jack e mandò al diavolo i suoi amici!
Con Kamile poi c’era stato il Bedesten, il tè alla mela e il giallo e il rosso del tappeto sul muro del negozio… quello su cui ora era sdraiato.
Aprì gli occhi, si alzò, andò alla porta finestra e uscì sulla terrazza della sua Water House. Osservò il Lake Union, mentre la pioggia cadeva e il “buco nell’acqua” che faceva ogni goccia…. Erano come Kamile… Penetravano a fondo. Ora vedeva il Gas Work dalla parte opposta del lago mentre il vicino ritirava in fretta i panni stesi e la ragazza, qualche casa più in là, usciva in un’enorme sciarpa di lana grigia, per chiudere l’ombrellone. Era stato proprio sotto un ombrellone che lui e Kamile si erano salutati. Lo aveva fatto con la convinzione che sarebbe tornato  alla fine dell’anno. Voleva che il suo nuovo millennio iniziasse lì. Ma poi… Niente.  Era rimasto a Seattle, a bere in un locale con Jeff e Sam. Aveva sperato di andare lì almeno per l’estate, ma il padre aveva insistito per un summer course… Poi il ricordo di Kamile era svanito e lui era entrato in tutti quei grigi e quei bianchi appannati…  In quelle acque gelide dello stato di Washington.
Era ormai fradicio quando sentì aprire la porta di casa… Karen si fermò a pochi passi da lui…
“Perché sotto la pioggia?” e lo fissò in silenzio… Lui le corse incontro, le prese la mano trascinandola fuori… Si senti di nuovo il diciottenne di allora, mentre ripeteva il gesto del Titanic.
“Sei impazzito?” esclamò lei.
“Shhhh!” ordinò lui.
“Devo dirti una cosa…”
“Shhhh!”
“E’ importante…”
“Shhhh!”
“Sono incinta!”
E fu allora che bruscamente ritornò al presente e non gli restò che sperare che almeno quel figlio scegliesse una Kamile.



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