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La Casta: il mito e la storia

Creato il 02 agosto 2011 da Zamax

Non ne usciremo mai se invece di fare uno sforzo di verità continueremo a ripetere come pappagalli le comode bubbole tratte dal mito della casta. Quel mito parziale che serve solo alle fazioni, ai partiti, alle caste. Andiamo indietro di vent’anni. L’operazione Mani Pulite non fu un complotto. Ma non fu neanche il prodotto benefico del berlinguerismo. Prodotto malefico del berlinguerismo fu invece quello che la guastò. Agli smemorati ricordiamo che la sinistra nel suo insieme – la politica e i media di riferimento – fu presa alla sprovvista dall’esplodere di tangentopoli. E per qualche tempo il suo atteggiamento nei confronti della caccia ai marioli presi col sorcio in bocca rimase cauto e diffidente. Il motivo, ricordiamolo ancora agli smemorati, è che la protesta popolare e in parte certamente populista contro l’invadenza dei partiti, che diede ai magistrati la sensazione di non sentirsi soli e quindi la forza di procedere, era localizzata in quel lombardo-veneto “conservatore” dove la DC regnava incontrastata dalla fine della guerra. Proprio là, con la crisi del comunismo, a cavallo tra gli anni settanta e gli anni ottanta, si erano aperte le prime fenditure sulla calotta polare che l’equilibrio della guerra fredda aveva creata nel nostro mondo politico: la sfida craxiana all’egemonia del PCI a sinistra, la sfida leghista alla balena bianca a destra. A scendere in piazza contro la “partitocrazia” non erano i popoli viola o i girotondini di allora, ma i leghisti e i missini, i “fuori casta” di destra. Il megafono di questa protesta non era il “Fatto Quotidiano” di allora, ma “L’Indipendente” diretto da un tale Vittorio Feltri, ex del Corrierone. Era un sisma dentro l’elettorato e la politica di destra. Non è un caso che insieme a Feltri tutti questi protagonisti, leghisti, missini, democristiani (l’elettorato tutto, ma anche parte della classe politica sopravvissuta alla bufera), li ritroveremo poco tempo dopo dentro e dietro la coalizione berlusconiana. La metamorfosi destrorsa era compiuta, anche se il mostriciattolo doveva ancora crescere. Incompiuta rimase quella di sinistra. E infatti i craxiani in rotta andarono ad ingrossare le fila berlusconiane.

Ci sono due domande alle quali rispondere: perché il malcontento scoppiò nel lombardo-veneto e perché la metamorfosi politica a sinistra non riuscì? Per rispondere alla prima domanda bisogna fare una premessa: non sempre la presenza massiccia negli affari economici della mano politica, e di conseguenza della corruzione, è segno di una particolare tara morale in questo o quel popolo. In un paese di non solidissime tradizioni democratiche e liberali, almeno all’inizio, è la regola, perché mancano quella fiducia e quel reale senso civico che solo l’esperienza possono irrobustire, mentre lo statalismo si nutre di paura e diffidenza. In un paese in via di sviluppo, come fu l’Italia per decenni di vita repubblicana, il sistema della raccomandazione, della tangente, dei finanziamenti illeciti ai partiti, dell’osmosi tra politica ed economia, poteva non essere sentito come un grande problema, anche là dove il tessuto socio-economico era sano, finché la crescita economica dava i suoi dividendi a tutti. Ma in un paese ad economia matura, stagnante, appesantito dal costo sempre più insostenibile del welfare, quest’andazzo si stava rivelando semplicemente “antieconomico” per troppi attori, molti dei quali fino ad allora spesso complici del sistema. E’ per questo che il malessere si fece sentire, confusamente, giudicando con l’occhio del cronista, ma piuttosto chiaramente, all’occhio dello storico, in quella parte d’Italia che da una parte era meno legata alle sicurezze economiche del settore pubblico, e dove, dall’altra, l’osmosi politico-economica non aveva i ferrei caratteri spudoratamente professionali di quella su cui regnava il PCI.

La metamorfosi a sinistra non riuscì perché con istinto “rivoluzionario” ancora vivo e vegeto, nonostante il cambio di ragione sociale, i post-comunisti – e con loro chi voleva prendersi le spoglie di un paese allo sbando – videro nel caos di tangentopoli il classico e delicato periodo in cui un paese cambia pelle e il “nuovo” succede al “vecchio”: è quello il momento migliore per impadronirsi delle leve del potere. Non ci fu bisogno di uno squillo di tromba, di un ordine: fu il militantismo e lo spirito gregario a spingere a politici, giornalisti, intellettuali, magistrati a cavalcare compatti Mani Pulite, a dirottarla, e a farla propria. Invece di una “grande confessione”, di un bagno di verità nazionale, di un salto di qualità, ci fu un inutile “bagno di sangue” e l’epurazione di una parte della classe politica. E’ stata la “rivoluzione” di Mani Pulite a tenere in vita ciò che era vecchio: la politica dei buoni e dei cattivi e quella dei maneggioni, due facce dello stesso immobilismo. A rendere infinita, conflittuale, incompiuta una fase di transizione cui l’opposizione oggi spera di porre termine – follia all’ultimo stadio – con la fine dell’avventura politica di Berlusconi: semmai è il contrario. E non finirà di certo se l’ultimo vezzo di questo fariseismo duro a morire sarà quello di addossare alla politica tutte o quasi le colpe della “pozzanghera del malaffare”, come fa nel suo ultimo articolo Galli della Loggia, prendendo le parti di una grande stampa d’informazione che “non può né deve avere indulgenza per nessuno”. Siamo sempre al gioco dei buoni e dei cattivi. Fatto sul Corrierone, poi, che in questo ventennio ne ha combinate di cotte e di crude, fa ridere.

[pubblicato su Giornalettismo.com]


Filed under: Giornalettismo, Italia Tagged: Casta, Corriere della Sera, Democrazia, Ernesto Galli della Loggia, Liberalismo, Mani pulite

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