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La corsa del secolo

Da Lundici @lundici_it
La corsa del secolo

Arnulfo Quimare, fortissimo atleta Tarahumara, e Scott Jurek, la leggenda dell’ultramaratona.

L’ultramaratona tra i canyon messicani. Il 25 febbraio 2006 un bizzarro gruppo si radunava a El Paso, Texas, al confine col Messico. Erano lì su invito di un giornalista sportivo americano, Christopher McDougall e del fantasma di un’atleta, Caballo Blanco, ossessionato dall’idea di organizzare una corsa a piedi tra atleti americani e i Tarahumara (o Raramuri), i leggendari corridori della Sierra Madre messicana, la catena di montagne selvagge ed inospitali del Messico settentrionale.

Si sapeva già che i Tarahumara erano degli incredibili campioni. La loro leggenda era nata nel 1993 quando un gruppo di loro, sconosciuti a tutti, aveva partecipato e vinto con facilità le Cento miglia di Leadville, una corsa massacrante a tremila metri di altezza sulle montagne del Colorado. Senza alcuna preparazione e usando sandali ricavati da copertoni usati. Nel 1994 si erano ripetuti stracciando i migliori campioni americani, poi erano scomparsi di nuovo tra le gole delle loro montagne, protetti dalle ombre e dal silenzio.

Di Caballo Blanco si sapeva invece solo che era un americano che viveva e correva in mezzo ai Tarahumara. Anche gli indigeni che lo ospitavano e gli davano da mangiare lo consideravano una creatura strana, un fantasma, uno spirito sempre di corsa. Nessuno conosceva la sua storia e perché si fosse rifugiato tra i canyon messicani. Era un reietto, un carcerato in fuga, un ribelle? Quanti anni aveva? Cosa cercava tra i silenziosi timidi Tarahumara? McDougall, mentre era impegnato nel preparare una serie di articoli sui corridori Tarahumara, aveva inseguito le sue apparizioni da un villaggio all’altro, finché era riuscito a bloccarlo in una taverna. Da quell’incontro era iniziata una stranissima corrispondenza tra due mondi che apparentemente non avevano nulla in comune, dalle profondità dei canyon del Messico settentrionale agli uffici nei grattacieli di New York. Nel nome della nobile competizione.

Le mail di Caballo Blanco a McDougall arrivavano sporadiche, quando lo spirito riusciva a raggiungere l’unico telefono e l’unica lentissima connessione internet disponibile nel territorio Tarahumara. Messaggi sconclusionati, a volte incomprensibili, ma non privi di una loro logica, e di un irresistibile contagioso entusiasmo. McDougall si era lasciato prendere e aveva lanciato l’appello per la corsa del secolo, la sfida tra i superatleti americani delle lunghe distanze e i mitologici Tarahumara.

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Urique è lì in fondo.

Nell’ultima mail Caballo Blanco aveva confermato la gara per il 5 marzo 2006 con partenza da Urique, nello stato messicano del Chihuahua, un minuscolo villaggio sepolto in fondo alle Barrancas del Cobre (i Canyon del rame). Era andato di villaggio in villaggio a lanciare l’annuncio: i Tarahumara attendevano l’arrivo dei campioni americani. Le sue doti organizzative erano ignote. Non si sapeva nulla del percorso se non che sarebbe stato durissimo. Christopher era preoccupato. Chi vorrebbe mettere la sua vita nelle mani di uno spirito fuggente, per una corsa di 80 chilometri in una terra di nessuno ferocemente selvaggia? Qualcuno invece rispose. E tra questi proprio il più grande campione delle corse estreme, Scott Jurek.

C’è chi pensa che correre in un parco cittadino sia già una follia. Il caldo d’estate. Il freddo d’inverno. Le zanzare. Le foglie. I maniaci. Le radici che fanno inciampare. Eppure l’asticella della follia si alza di anno in anno. Il numero dei maratoneti cresce di anno in anno in Italia e nel resto del mondo. Chi ha provato la maratona ed è sopravvissuto (e non è gara da improvvisare!), si fa prendere dalla voglia di superare i propri limiti: 50, 80, 100 chilometri, anche oltre. Sono le ultramaratone.

In Italia la più antica e famosa è la Cento chilometri del Passatore, che si svolge a fine maggio con partenza sabato pomeriggio da Firenze e arrivo a Faenza. Tempo limite venti ore. La maggior parte dei partecipanti passa la notte correndo da soli sull’Appennino. C’è anche di peggio. In settembre si tiene una corsa che ricorda la marcia di Filippide da Atene a Sparta nel 490 AC: bisogna percorrere i 248km tra le due città in meno di 36 ore. Se vi interessa guardate il sito ufficiale della Spartathlon. Ma c’è un ulteriore gradino, l’ultratrail, corse lunghissime su sentieri di montagna, nella neve e nel deserto, in totale autosufficienza.

Questo aveva in mente Caballo Blanco. Se l’idea di correre sull’asfalto bollente vi scoraggia, immaginate cosa significhi darsi da fare su un sentiero polveroso aggrappato sul fianco di una montagna, risalire da quota zero a quota mille e tornare giù dall’altra parte, per 80 chilometri, da soli, con temperature altissime di giorno, nessun rifornimento, zero assistenza medica. E con la concreta prospettiva che il proprio scheletro verrà ritrovato mummificato diecimila anni dopo da un archeologo zacateco.

La cosa bella fu che il richiamo di Caballo Blanco funzionò. Gli ultramaratoneti hanno processori che funzionano al contrario dei normali cristiani. O sono i normali che hanno qualche valvola arrugginita?

Quel giorno del febbraio 2006 a El Paso giunse Scott Jurek, la leggenda della corsa estrema, il vincitore di gare che solo a sentirle fanno tremare. Sempre con una dieta di verdure e legumi. Tre volte primo alla Sparthatlon e due volte alla Badwater, una cosa mostruosa di 217 chilometri che parte dalla Valle della Morte (una depressione desertica in California con temperature normalmente oltre i 40 gradi) e raggiunge i piedi del monte Whitney, la cima più alta del Nordamerica. Scott era un professionista con mille impegni e contratti da rispettare, eppure non esitò un momento ad accettare l’offerta di andare a correre tra i canyon, gratuitamente, e senza sapere a cosa andasse incontro.

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Questa pazza qui è capace di ubriacarsi la sera prima di una ultramaratona. Jenn “Mookie” Shelton nei canyon del rame.

Arrivò Barefoot Ted, un tizio che a quarant’anni aveva scoperto la corsa a piedi nudi facendone una professione, se non una religione, e che intendeva correre tra i canyon senza scarpe. Giunse Luis Escobar, altro atleta di valore e fotografo di questo sport. E poi due teste calde, Jenn “Mookie” Shelton e Billy “Bonehead” Barnett, che all’epoca si stavano facendo un nome nelle ultra “quando non erano invece impegnati sulla tavola da surf, in mezzo a una festa o in libertà su cauzione per aggressione (Jenn), disturbo della quiete pubblica (Billy) oppure oltraggio al pudore (tutti e due), per un’esplosione di passione a lato di una pista con conseguente arresto e deferimento ai servizi sociali.” (Secondo Christopher McDougall).

Guardate la foto accanto di Jenn. Una ragazza da party selvaggio. Completamente sballata. Priva di qualsiasi timore. Jenn dice a Christopher “mia mamma pensa che tu sia un serial killer che ci farà fuori tutti nel deserto. E’ una cosa per cui correre assolutamente il rischio.”

Quanto a McDougall, tutto era iniziato con un dolore alla pianta del piede, persistente, fastidiosissimo, che gli impediva di percorrere anche solo pochi chilometri di jogging. Per i medici era un caso irrecuperabile. Meglio lasciar perdere la corsa. McDougall aveva però sentito parlare nel corso della sua carriera giornalistica dei Tarahumara e delle loro incredibili doti di resistenza. Come era possibile per loro correre centinaia di chilometri senza allenamento, senza attrezzature e senza infortunarsi, mentre invece ogni anno l’80% dei corridori americani iperprotetti da scarpe sempre più tecnologiche subisce problemi fisici di qualche genere? C’era un segreto nella loro arte di correre? Oppure c’era qualcosa di profondamente umano che era possibile imparare, anzi tornare ad imparare?

In cerca di qualche risposta e di storie da raccontare, McDougall si avventurò a sud, nelle terre selvagge e bellissime dove i Tarahumara si erano rifugiati per salvarsi da missionari, minatori e militari, entrando in contatto con un mondo molto più vicino a ciò che appartiene davvero ad ogni essere umano. Nel suo viaggio McDougall incontrò narcotrafficanti e rapaci businessman sportivi, scienziati e guru, pubblicitari e medici, fino ad arrivare a Caballo Blanco, che gli indicò una strada, recuperare la dimensione naturale della corsa. McDougall verrà ricostruito come atleta e corridore, senza più dolori, finché anche lui sarà pronto alla linea di partenza ad Urique.

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Caballo Blanco (alias Micah True), Arnulfo Quimare e Scott Jurek.

Ma la corsa del Canyon del Rame va oltre una bella storia sportiva. E’ il punto di incontro tra due mondi, quello industriale ed artificiale, con le sue scarpe ammortizzate da 150 euro, e quello più vicino alle nostre origini animali, di esseri capaci di correre per ore e ore su terreni sconnessi in caccia di una preda. Il raid tra i canyon messicani ha permesso di gettare un ponte verso una cultura tradizionale in grave difficoltà dall’incalzare della modernità. I Tarahumara più forti sono quelli che vivono nei villaggi più reclusi. Quelli che arrivano in città perdono rapidamente le loro qualità atletiche, oltre che la loro identità. Oggi si è aggiunto anche il pericolo dei narcotrafficanti. Anche per questo la corsa organizzata da Caballo Blanco è diventata così importante. Dopo gli inizi anarchici, è cresciuta e attira ogni anno un quattrocento corridori estremi provenienti dall’America e anche da altri paesi. La corsa continuerà a vivere, anche dopo la morte improvvisa del suo creatore. Nel marzo 2012, infatti, Caballo Blanco, alias Micah True, è morto a cinquantotto anni mentre correva da solo nel deserto, vittima di un’improvvisa crisi cardiaca. Forse la morte che aveva desiderato.

La prossima edizione si terrà il 3 marzo. Se questo articolo vi ha fatto venire voglia di correre, avete tempo fino al 28 febbraio per iscrivervi.

La storia di Caballo Blanco, dei Tarahumara, di Scott Jurek e del mondo degli ultramaratoneti è raccontato nel libro del 2009 di Christopher McDougall, “Born to run”, ormai un classico, poetico e avventuroso, della letteratura sportiva.

 


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