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La cultura italiana sta finendo nell’abisso?

Creato il 13 maggio 2014 da Beltane64 @IrmaPanovaMaino

Il Salone del Libro di Torino sempre più simile al Deserto dei Tartari

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Dite pure tutto ciò che volete, ma noi eravamo lì, eravamo presenti alle varie code agli ingressi e alla ressa stazionante fra i vari corridoi dei padiglioni… Ebbene, chiunque abbia scritto che il Salone del Libro di Torino ha marcato un nuovo successo nel panorama culturale mondiale, ha scritto un’enorme fesseria. Quindi i casi sono due: non è andato e parla per interposta persona (la quale, a sua volta, ha mandato Ciccio il meccanico che di editoria non ci capisce nulla) oppure ha beccato gli unici veri cinque minuti di assembramento alle casse e in un qualche punto della Fiera.

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La verità è che giovedì, giorno di apertura, aleggiava uno strano silenzio rotto solo da un brusio sconcertato di sottofondo e condito da qualche omelia rappresentata da un paio di oratori annoiati presenti alle conferenze sopravvissute nella scaletta per gli appuntamenti (le altre sono saltate per mancanza di pubblico). Si respirava un’aria perplessa in cui i punti di domanda aleggiavano sui volti degli standisti, i quali si aggiravano come anime inquiete davanti ai propri espositori tentando di attirare l’interesse di qualcuno, fosse stato anche solo l’inserviente che transitava da quelle parti per svuotare i cestini della spazzatura. La giornata di venerdì ha assunto un tono leggermente diverso, grazie alle scolaresche (benedetti ragazzi!) e a qualche avventore temerario. Una discreta fila si è finalmente palesata alle casse (non pensate alle chilometriche attese degli scorsi anni, giusto qualche minuto, niente di più) e nei corridoi interni è stato possibile praticare lo sport “scansa-quello-che-ti-si-ferma-davanti-di-colpo“. Sabato è stato il giorno della grande ressa, la massa orbitante degli amanti del weekend si è riversata all’interno dei padiglioni, riempiendo gli spazi disponibili e dando all’intero evento quel timbro rassicurante che avrebbe dovuto avere fin dall’inizio. Tuttavia, se pensavamo che il fenomeno si sarebbe ripetuto anche di domenica, avevamo già sbagliato le previsioni. Il “settimo” giorno si sono riposati in molti, soprattutto i visitatori, riportando nuovamente la quiete in un luogo dove, per antonomasia, non avrebbe dovuto esserci.

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Questo, in sostanza, il riassunto che si potrebbe fare del Salone del Libro di Torino, una Fiera che dovrebbe rappresentare il momento più importante per la nostra cultura e che è sempre stato considerato il secondo più importante evento in ambito europeo. Rispetto agli anni passati le differenze si sono viste, inutile negarlo. Gli stand delle “grandi” erano decisamente più piccoli, i corridoi incredibilmente più grandi, la superficie fieristica ridotta, le file alle casse dimezzate (persino l’apertura degli sportelli è stata scaglionata, visto il poco traffico) e, per finire, anche gli albergatori si sono lamentati per la diminuzione delle prenotazioni e dei clienti che normalmente avrebbero affollato le loro hall, cercando di accaparrarsi le ultime camere rimaste. Insomma, chiunque scriva che anche quest’anno c’è stata la consueta ressa e il tutto esaurito ha sicuramente avuto altro da fare, ma non è venuto a Torino e non ha visto, con i propri occhi, ciò che realmente è accaduto. Quanto meno non è transitato attraverso la bolgia infernale dei precedenti anni e, dunque, non ha compreso la portata del decadimento di un evento che aspettavamo tutti.

A questo punto la domanda sorge spontanea: è davvero questo il segnale che la cultura italiana sta finendo nell’abisso?

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Francamente di cultura non se n’è vista un gran che. Mondadori ha messo nelle proprie vetrine i libri sui calciatori, gli sproloqui della Pellegrini (che quando non si allena trova il tempo per ammorbarci anche per iscritto), i soliti vaneggiamenti di Vespa, i calcoli pseudo filosofici di Tremonti e le esternazioni di Brunetta. Ah… sì, ha anche esposto l’ultima fatica (?) di Fabio Volo e il libro di Licia Troisi.
Baldini e Castoldi ha, invece, pensato di puntare tutto su un titolo provocatorio, dando risalto a un unico libro la cui cover ben rappresenta l’idea di dove vada a finire il nostro livello culturale: “Come vivere con un pene enorme”…
Feltrinelli si è data alla ristampa dei classici, lasciando intendere che gli unici autori degni di nota sono quelli che di vivo hanno solo gli eredi (ai quali, forse, non vengono nemmeno corrisposti i proventi dei Diritti d’Autore).
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Il Vaticano ha tappezzato i propri editori associati con le biografie di questo o quel Papa, trasformando il tutto in un bel circo mediatico in cui è stato il merchandising a spadroneggiare, non certo la fede né, tanto meno, la cultura.
La Giunti, che tra l’altro ha proposto una delle copertine più belle presenti in Fiera (ovviamente non se n’è accorto nessuno), ha espresso tutto il suo potenziale editoriale tappezzando la fronte di grandi e piccini (per lo più i grandi, di questo se ne sono accorti tutti) con l’immagine di un famoso personaggio dei cartoni animati, lasciando presumere che l’unico traguardo che potremmo mai raggiungere è rappresentato da un suino intellettuale.
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E di altri esempi di questo tipo potrei riempire pagine e pagine di questo post, ma il sunto sarebbe sempre lo stesso: la vera editoria la fanno i medio/piccoli editori, sicuramente non quelli grandi. Sono state le piccole Case Editrici a portare in Fiera le novità, i nuovi volti, i nuovi autori, per lo più nostrani. Le piccole CE, tanto vituperate, che hanno colto quel messaggio che ormai i media paiono snobbare, propinandoci programmi come Masterpiece che di culturale hanno veramente poco. Ed era all’interno dei loro stand che ancora si respirava quella sana aria di entusiasmo e di voglia di fare che le grandi hanno dimenticato da tempo. Dunque, se da una parte questo Salone è stato una delusione, un momento mancato in cui sarebbe stato bello poter affrontare gli innumerevoli discorsi che stanno realmente a cuore, dall’altra ha portato a galla delle verità che non dovrebbero restare ancora nascoste. Il futuro è rappresentato proprio da quella massa di piccoli editori che, magari inventandosi un mestiere, portano involontariamente alla luce qualche incredibile capolavoro sfornato da Penne nostrane. Il futuro è racchiuso nelle mani di quei pionieri che praticano il self publishing selvaggio, fregandosene altamente di un editing ben fatto, ma che esprimono liberamente il proprio pensiero e le proprie emozioni. Il futuro siamo noi, audaci autori di testi senza speranza, che ancora credono di poter dare un contributo in un mondo fatto di calciatori ignoranti come capre tibetane e soubrettine il cui unico pregio è evidenziato dal fatto che non sono loro a scrivere i libri che firmano.

Quindi, non tutto è perduto e non tutto è destinato alla catastrofe, anche se, sicuramente, il Salone Internazionale del Libro, se in futuro non cambia registro e tono, è l’unico a uscirne sconfitto.


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