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La cultura tra scienza e filosofia

Creato il 21 settembre 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
C__P__Snowdi MIchele Marsonet. In un celebre volumetto pubblicato nel secolo scorso alla fine degli anni ’50, e intitolato “Le due culture”, lo scienziato e scrittore britannico Charles Percy Snow lanciava un grido d’allarme denunciando la crescente separazione – ed estraneità – tra la cultura umanistica e quella scientifico-tecnologica. Snow era convinto che la cultura è una sola, che la summenzionata distinzione è in fondo artificiale e ingiustificata, e che occorre superare questa barriera che egli giudicava negativa per le sorti del mondo e del sapere.

Il punto cruciale, tuttavia, è capire la natura e l’essenza della cultura. Curiosamente Snow, quando parla delle “due culture”, si riferisce sempre agli specialisti, e questa è una visione elitaria e poco realistica. Snow, scienziato per formazione e romanziere per vocazione, immaginava i salotti inglesi divisi in due. Da una parte gli scienziati che – chissà perché – non hanno mai letto Dickens, e dall’altra gli umanisti che – cosa più plausibile – non conoscono la seconda legge della termodinamica.

In realtà la cultura è un insieme strutturato di conoscenze specialistiche dotate di un valore non solo teorico o contemplativo, ma anche politico e, soprattutto, pratico. Non ci sono due culture, ma solo una. La vera distinzione da fare è tra cultura e in-cultura. Tuttavia la conoscenza non diventa cultura se è incomunicabile, e questo vale sia per il versante umanistico sia per quello tecnico-scientifico. In Italia la situazione è ancora più complicata a causa del lungo predominio di tendenze idealistiche in filosofia e nelle scienze umane, tendenze che – non tutti lo sanno – sono state trasmesse anche alla scuola marxista italiana, essendo Gramsci assai influenzato da Gentile e da Croce. La scienza, per Benedetto Croce, era solo “un libro di ricette di cucina”, e ancor meno valeva la tecnica. La vera cultura si faceva in altre sedi.

Il libro di Snow divenne in breve un best-seller e in seguito l’autore, nella seconda edizione dell’opera (1963), lanciò l’idea di una “terza cultura” che funzionasse da un lato come ponte tra umanesimo e scienza e, dall’altro, conducesse al definitivo superamento della deprecata dicotomia. Idea bella e affascinante, anche se difficile da mettere in pratica. Eppure essa è stata ripresa nei primi anni ’90 da John Brockman, fondatore dell’associazione culturale “Edge” alla quale fanno riferimento in maggioranza scienziati, ma anche alcuni filosofi, linguisti e specialisti di scienze umane.

I risultati dell’impresa sono stati raccolti in un volume pubblicato per i tipi de Il Saggiatore: “Non è vero ma ci credo. Intuizioni non provate, future verità”, a cura dello stesso Brockman. Numerosissimi i nomi di spicco presenti nella raccolta. Cito, tra i più noti, Richard Dawkins, Paul C. Davies, Freeman Dyson, Daniel Dennett, John Barrow. Tutti rispondono a una domanda posta da Edge: “A volte grandi menti riescono a intuire la verità prima di averne le prove o gli argomenti: Diderot lo definiva ‘esprit de divination’. In che cosa credi, anche se non puoi provarlo?”. Quesito stimolante ma, al contempo, insidioso. Può essere posto a chiunque, e non solo alle grandi menti. Il rischio, insomma, è quello di ricevere risposte in gran parte banali.

E, infatti, proprio questa è l’impressione generale che si ricava dalla lettura. L’astrofisico Sir Martin Rees crede fermamente nella possibilità di colonizzare l’Universo trasferendo comunità umane al di fuori della Terra. E si può notare che si tratta di uno dei cavalli di battaglia di Isaac Asimov, il più grande scrittore di fantascienza dei nostri tempi. Secondo l’inventore Ray Kurzweil, invece, troveremo prima o poi il modo di superare il limite alla comunicazione delle informazioni costituito dalla velocità della luce. Lo scrittore Douglas Rushkoff crede che l’evoluzione abbia uno scopo e una direzione, e trova ovvio, anche se assolutamente impossibile da confermare, che la materia avanzi a tentoni nella direzione della complessità.

Il biologo Richard Dawkins vede l’intelligenza come risultato di un processo cumulativo di selezione darwiniana, e ritiene che siamo in procinto di trovare una Terra fori dal sistema solare. Il celebre fisico e divulgatore scientifico Paul Davies non crede che la vita sia un evento insolito e pensa al contrario che l’universo ne sia pieno. Ma aggiunge: “non posso dimostrarlo; anzi, è possibile che l’umanità non conoscerà mai con certezza la risposta”. Per il premio Nobel Leon Lederman, “credere in qualcosa pur sapendo che non può ancora essere dimostrata è l’essenza della fisica”. Il fisico teorico italiano Carlo Rovelli sostiene che il tempo non esiste, che non vi sono oggetti, solo relazioni, ma anch’egli aggiunge di non poterlo dimostrare.

Verrebbe da dire che lo sapevamo già. Karl Popper ha sempre sottolineato che la scienza procede per congetture e confutazioni, e che è pericoloso supporre di aver raggiunto la verità perché dopo si viene subito smentiti. Tuttavia Popper dava il giusto rilievo al fatto che vi sono dei rapporti di contiguità tra metafisica e scienza, nel senso che molto spesso le ipotesi metafisiche sono l’anticamera delle teorie scientifiche. Nel volume di “Edge” di tutto questo non si argomenta, come se la fallibilità della scienza fosse una scoperta nuova di zecca. Si parla altresì dei limiti della conoscenza scientifica, scordando però che tali limiti sono strettamente correlati a quelli delle capacità cognitive umane.

A causa della nostra struttura fisica e delle caratteristiche dell’apparato percettivo-sensoriale che possediamo soltanto una piccola parte della realtà è accessibile agli esseri umani, e proprio per questo è opportuno parlare di “inesauribilità cognitiva” della natura. Mi pare ovvio che, per dar vita a una “terza cultura”, tali temi andrebbero trattati con maggior raffinatezza. In fondo Socrate aveva già compreso, tanto tempo fa, che il “sapere di non sapere” è l’unica certezza di cui disponiamo.

Featured image, Charles Percy Snow


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