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La giungla dell’economica dominante

Creato il 27 marzo 2012 da Conflittiestrategie

Riportiamo un paragrafo tratto dal nuovo saggio di Gianfranco La Grassa, L’ALTRA STRADA, in uscita tra qualche mese. Il passaggio in questione è breve ma significativo in quanto mette in evidenza i meccanismi ideologici attraverso i quali agisce l’economica dominante al fine di giustificare la forma di riproduzione sociale esistente, assimilandola persino ad un fatto naturale. Dai tempi delle robinsonate però molta acqua è passata sotto i ponti, tant’è che oggi esitiamo a parlare ancora di capitalismo negli stessi termini in cui ne diceva Marx, riferendosi precipuamente alla formazione sociale scaturita in Inghilterra, nel ’800. Eppure le teoresi sistemiche continuano a giocare con i rimandi alla natura umana che spiegherebbero il successo di determinati esiti sociali, seppellendo sotto cumuli di proiezioni distorte la stessa forma dei rapporti collettivi in questione che è appunto il prodotto di una evoluzione storica determinata. Ma adesso il mito di Robinson non è più sufficiente ad imbrogliare le carte in tavola. Gli idoli dalle fattezze antropiche di un’epoca capitalistica quasi pagana sono usciti dal loro corpo e si sono trasformati in segni astratti, in algoritmi scorrevoli sugli schermi degli operatori di borsa a conferma di quelle leggi, immancabilmente innate, del mercato e del mercatismo le quali impongono agli Stati deboli e sottomessi politiche di lacrime e sangue. Il dio Spread non ha più bisogno di metafore e di Venerdì per spiegarsi, basta la sua invocazione quotidiana internazionale per far accettare a tutti quanti le sue regole sacre e le sue pratiche magiche. Ma dietro queste apparizioni fantasmagoriche si realizza ancora un rapporto sociale, storicamente concretatosi e modificatosi di fase in fase, che chiede di essere sceverato e studiato per essere eventualmente prima compreso e poi rovesciato. Chi si scaglia contro gli ologrammi finanziari, convinto di poter modificare la situazione, è destinato a diventare egli stesso un fantasma o un medium di sedute spiritiche antisistemiche inutili ed ineffettuali, o ancor peggio una preda inerme di sciamani tribali che predicano povertà in cambio di doni preziosi per se stessi. Il cuore del problema sta altrove, nella politica che è sequenza di mosse strategiche del conflitto tra attori nelle diverse sfere sociali, pratica dominante nell’ambito della società dalla quale consegue la strutturazione della realtà nei diversi gradi, tanto oggettivi che soggettivi. Già comprendere questo punto, rinunciando alle suggestioni finanziaristiche, pro o contro, di quest’epoca ci porterebbe su un’altra strada, meno battuta ma non cieca come quella attualmente percorsa da molti.

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di G. La Grassa

L’unico elemento di economicismo in Marx consiste nel fatto che egli considera fondamentali e prioritari rispetto agli altri, nel definire in quale “epoca storica della formazione sociale” ci troviamo, i rapporti stabilitisi tra i vari soggetti umani nell’ambito della produzione, intesa come trasformazione degli oggetti per soddisfare i loro bisogni e come riproduzione dei rapporti sociali entro cui avviene la produzione e la distribuzione degli oggetti (trasformati) ai fini della vita associata. L’economica dominante parte sempre dal famoso Robinson, individuo che ha una serie di bisogni e divide il suo tempo tra procacciamento degli oggetti da consumare per soddisfarli (in quanto individuo isolato) e “fabbricazione” (a partire da dati materiali) di strumenti per potenziare la sua attività di produzione e trasformazione degli oggetti a lui utili.

L’economica si scorda di dire che l’eroe di Defoe è un individuo proveniente dalla società già capitalistica, sbattuto su un’isola dotato sia di una serie di oggetti per soddisfare i suoi bisogni più urgenti sia di strumenti atti a “istituire” un’attività (una certa forma di attività) di trasformazione e di fabbricazione di altri strumenti: e porta con sé, soprattutto, i savoir faire e la mentalità acquisiti nella formazione sociale di provenienza. L’economica finge che si possa individuare la scala “umana” dei bisogni, e quindi la distribuzione del tempo e degli sforzi per procurarsi i “beni” utili a soddisfarli, in assenza di stimoli mercantili, che sono gli stimoli sociali primari nella formazione del capitale. Errato in radice. Tutto il calcolo razionale – la razionalità del minimo mezzo o sforzo (per il massimo risultato), ecc. – da cui Robinson è guidato è quello tipico del “produttore” (imprenditore) capitalistico che agisce nella competizione mercantile.

La scienza, che fu detta “borghese”, sarebbe stata più conseguente se avesse preso le mosse da Tarzan. Burroughs (Edgar Rice) illustra in modo assai brillante quali differenziazioni effettivamente biologiche (di DNA diremmo oggi) esistano tra il neonato umano, subito orbato dei suoi genitori e salvato da “mamma scimmia” (che aveva appena perso suo figlio), e la tribù di primati in cui viene allevato. I suoi progressi di differenziazione dalla scimmia sono lentissimi, l’idea del minimo sforzo non occupa affatto i suoi pensieri né orienta la sua azione. Afferra invece fin da bambino la necessità di sopperire alla nettamente minore massa muscolare, che lo rende inadatto ad un certo tipo di lotta in natura, sviluppando l’astuzia e imparando ad usare con la massima abilità il coltello che, fortunosamente, trova nella capanna dove suo padre (che egli non sa lo fosse) era stato accoppato. Solo quando nell’isola arriva una nave che porta i membri di una ben precisa formazione sociale umana (sempre quella capitalistica), inizia il suo vero apprendistato che si conclude però malinconicamente rinunciando all’amore di Jane, attratta sensualmente dalla sua animalesca carica vitale (dell’odore però non si fa cenno….), ma sempre preda di una forma di resistenza di fronte a quest’uomo un po’ “strano”, per cui alla fine preferisce l’individuo “civile”, abituato alla vita delle città borghesi, all’educazione (con tutti i suoi limiti e tabù) e alle manifestazioni di sentimenti più soft, ecc.

Sarebbe stato veramente interessante vedere come se la sarebbero cavata Walras o Marshall o Böhm-Bawerk, ecc. alle prese con Tarzan, in cui non vi è il “primato della domanda”. I suoi “calcoli” sono basati sull’uso spiccio del coltello, sulle estenuanti attese per gli agguati, sui plurikilometrici e quatti pedinamenti controvento per non far sentire il suo odore di animale, sulla sua lunghissima e prudente attesa del declino (per vecchiaia) della tigre, che da giovane lo aveva quasi ucciso. E quando essa è divenuta meno agile e un po’ torpida, riesce infine a sopprimerla (anche con un po’ di fortuna); allora esplode il suo orgoglio nella certezza d’essere divenuto la “prima potenza” della foresta. Dov’è il “primato del consumatore” del micragnoso e gretto Robinson? In Tarzan, effettivamente, la forza e l’astuzia, l’inganno e l’ambizione, espressi nella forma più pura dell’animale, precedono ogni possibile forma mercantile. Non è lo scambio che determina la preminenza. Lo si potrebbe mostrare pure con altri passi del libro, quando sbarcano dalla nave i marinai “cattivi”, ma questo basti.


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