Frank Oz si ispira all’omonimo musical di Alan Menken e Howard Ashman, a sua volta ispirato all’omonimo film di Roger Gorman, del 1960, e sforna una commedia musicale che tanti – ma tanti – anni fa, alla prima visione, non avevo seguito fino alla fine: non mi piaceva il genere, “con tutte quelle canzoni”.
Musical e film musicali non mi piacciono nemmeno adesso – tranne qualche sporadica eccezione. E non mi sarebbe venuto in mente di andare a ripescare proprio La piccola bottega degli orrori se qualche giorno fa, curiosando nei cestoni dei dvd in offerta al supermercato, non mi fosse capitato tra le mani il film di Gorman – che non conoscevo.
Tanto è bastato, però: mi sono procurata quello di Frank Oz e oggi l’ho rivisto.
Questa volta non solo sono arrivata fino ai titoli di coda compresi, ma mi sono anche divertita. Capisco come mai, pur non avendo avuto chissà quale successo di pubblico, La piccola bottega degli orrori targata Oz sia diventato un cult.
La storia è semplice, con quella vena di humor nero e macabro che adoro. Poi sarà anche il momentaccio in cui sguazzo, magari, ma i personaggi – che avrei forse trovato interessanti, ma senza farmene coinvolgere più di tanto – me li sono proprio presi a cuore.
Diamine! Ho anche io il mio personale Skid Row, dal quale vorrei evadere – adesso più che mai.
La domanda è: cosa si sarebbe disposti a fare pur di sfuggire a una vita tanto al di sotto dei propri sogni, per quanto semplici essi siano?
Seymour, giovane timido e goffo, lavora nel negozio di fiori del Sig. Mushkin, nel quartire di Skid Row, downtown di New York. Gli affari non vanno bene, così come la vita sentimentale – essendo Seymour innamorato della collega Audrey, fidanzata con un dentista sadico e manesco. Poi un giorno, durante un’eclisse totale di sole, Seymour scopre – nel negozio di fiori di un cinese – una piantina con una sorta di bocca. Decide di prendersene cura. E come ultima risorsa, per evitare la chiusura del negozio del Sig. Mushnik, la espone in vetrina. Il successo è immediato: attratti dall’esoticità della pianta, i clienti si affollano all’interno del locale, acquistando il più possibile. Tutto comincia ad andare per il verso giusto, tranne un’unica cosa: la piantina, che Seymour ha battezzato Audrey II, non si nutre di acqua e concimi come tutte le altre. Audrey II vuole sangue umano.
E Seymour, ovviamente, sangue le darà. Perché di quella pianta bizzarra né lui, né Murshkin né Audrey possono più fare a meno. Poi, finché si tratta del suo sangue, nessun problema – oddei, eccezion fatta per le dita macellate e la stanchezza cronica. Solo che la pianticella diventa ben presto una specie di gigantesco carciofo con la dentatura di uno squalo e l’appetito di un T-Rex. E uno spiccato gusto per l’omicidio, unito a una diabolica capacità di persuasione e di fare leva sui desideri più intimi e segreti del povero Seymour.
Audrey II, l’unica “piantina” che ammazzerebbe me (di proposito) e non viceversa, com’è successo finora (senza alcuna intenzione, da parte mia, di far morire la pianta -_-)… LA VOGLIO!
Rick Moranis pare abbonato all’interpretazione dello sfigato bello dentro. In questo caso, si cala nei panni di una vittima – tanto delle circostanze (orfano e inchiodato a Skid Row) quanto di se stesso, sempre in bilico tra le sue aspirazioni e la sua passività. Non è il genere di personaggio che suscita la mia comprensione, di solito, ma quando ha cominciato a cantare Skid Row (o Downtown) – insieme a Audrey (una fantastica Ellen Greene) – sono caduta come una pera cotta. Soprattutto nel momento in cui – davanti a una rete fatiscente oltre la quale si arrampicano dei disperati, simili a tanti morti viventi (no, non sono io che vedo zombi dappertutto ^^, è proprio Skid Row che toglie vita e vitalità ai propri abitanti) – la canzone si fa più concitata e Seymour appare, per una volta, determinato. Ecco lì, in quel momento, ho “fatto amicizia” con il maldestro fioraio. E mi sono sentita davvero coinvolta, ma questa è un’altra storia e non la si dovrà raccontare.
Skid Row non è una canzone allegra e nemmeno lo è la coreografia: i personaggi “dondolano”, ciondolano, sfibrati dal grigiore della loro esistenza; ma è in crescendo, dalla mestizia iniziale della badante che torna a casa dopo una giornata di lavoro umiliante fino a quel piccolo moto di ribellione che porta Seymour e Audrey a cantare a squarciagola la loro intenzione di andarsene. Trovo che sia una delle canzoni più belle del film. Insieme a Mean Green Mother from Outer Space, che però è del tutto diversa: perfida e divertente. Non per niente, la canta Audrey II – che sghignazza tutta contenta e soddisfatta nel definirsi una grossa pianta verde, stronza e cattiva.
A dire la verità, tutte le canzoni del film, per un verso o per un altro, sono fantastiche.
Lo è quella cantata da Steve Martin, che interpreta il sadico dentista Orin Scrivello – che opera fatto e strafatto di etere, per godere meglio del terrore dei suoi pazienti.
Lo è persino Suddenly Seymour, anche se – per come sono fatta io: ovvero, romanticismo sulla soglia dello zero assoluto – accompagna il momento in cui la mia attenzione era una linea piatta.
Accanto a Rick Moranis, Ellen Greene: la sua Audrey è straordinaria. Una svampita sognatrice, un’altra vittima delle circostanze e di se stessa. Ecco, non avrei mai pensato di dire una cosa del genere, ma Audrey mi ha fatto davvero simpatia – benché sia un’ingenuotta che trasuda dolcezza da ogni curva. Non l’ho trovata stucchevole, nonostante… be’, nonostante tutto. Insomma, recuperate il film, via! O finirò per spoilerare e vorrei evitarlo.
Tutto intorno, una serie rutilante di comparse: John Candy (che, per la verità, è la guest star che mi ha detto meno di tutte). Bill Murray, che interpreta un masochista (Arthur Denton) che si gode talmente tanto il dolore da farsi cacciare dallo studio di Orin Scrivello, beccandosi un “Pervertito!” da parte del dentista. E poi Jim Belushi, nei panni di un affarista. E Crhistopher Guest – marito di Jamie Lee Curtis.
E, su tutti, le tre Muse di Skid Row – un coro greco che rappresenta l’anima del quartiere. Divine, stupende, le ho adorate! Tichina Arnold (Crystal), Michelle Weeks (Ronette) e Tisha Campbell (Chiffon). La canzone con cui aprono il film, Little Shop of Horrors, mi si è piantata in testa e non se ne va più. E non è nemmeno la più significativa tra tutte quelle che cantano.
Un’ultima cosa su Skid Row e poi chiudo.
Anche senza sapere che il film di Frank Oz è ispirato a un musical teatrale, basta osservare le inquadrature del quartiere e la sua costruzione per avere l’impressione di essere come seduti in platea. Di solito sono del tutto insensibile all’ambientazione – a meno che non sia qualcosa di davvero eclatante, tanto da non passare inosservata persino agli occhi di una distratta cronica come me. Ma in questo caso mi sono piaciuti anche gli ambienti, tanto quelli interni quanto quelli esterni.
Quindi, va da sè, il dvd di Little Shop of Horrors sarà il mio prossimo acquisto.
Peccato non essere riuscita a trovare da nessuna parte un modello/pupazzo/qualunque cosa di Audrey II.
Feed me, Seymour!… I think it’s suppertime!