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La potenza del «nome»

Da Agueci

Il nome, [dal ὄνομα(ónoma), dal latino nomen], o sostantivo (indica la sostanza, ciò che esiste), è quella parte variabile del discorso che serve a indicare persone, animali, cose, idee, concetti, stati d'animo, azioni e fatti. È, insieme al verbo, l'elemento fondamentale del discorso e quindi del linguaggio.

Nel libro della Genesi Dio crea e immediatamente denomina. Così con il nome, la "cosa" acquista vita, diviene oggetto identificabile e compartecipe. "Dio chiamò la luce Giorno e le tenebre Notte [...] la grande volta Cielo [...] l'asciutto Terra e le acque Mare" (Gn 1, 4; 8; 10).

Imporre il nome vuol dire dominare la cosa o l'animale, avere un potere su di esso/a, proprio come fa Dio e, dopo, è Adamo che dà il nome agli animali: "Ognuno di questi animali avrebbe avuto il nome datogli dall'uomo. L'uomo diede dunque un nome a tutti gli animali domestici, a quelli selvatici e agli uccelli" (Gn 2, 19-20). Ciò che non ha un nome è trascurabile, si dimentica, si omette. Non è degno di essere menzionato... Ulisse nell' Odissea beffa Polifemo negandogli il suo nome, dicendo di chiamarsi Nessuno, e solo così riesce a liberarsi dalla trappola tesagli dal mitico mostro.

I nomi svolgono funzioni estremamente importanti. A seconda come sono utilizzati, possono essere lessicalmente comuni e propri, concreti e astratti, individuali e collettivi, numerabili e non numerabili, difettivi e di genere.

Ma è davvero importante avere un nome? Certamente che lo è, anche se ciò è, per alcuni aspetti, indicativo. Il nome porta con sé tutta la sua "storia", distingue, spesso descrive, comunque evoca: è l'archetipo di un comportamento. Nell'ebraismo, chiamare qualcuno per nome significa conoscere la realtà del suo essere più profondo, la sua vocazione, la sua missione, il suo destino. È come tenere la sua anima nella propria mano, avere potere su di lui. Ecco perché per gli Ebrei il nome di Dio, che indica la Sua essenza, è impronunciabile. Solo il Sommo Sacerdote, una volta l'anno (nella festa del Kippur = espiazione), poteva pronunciarlo mentre i sacerdoti e il popolo, piegavano le ginocchia e si prostravano esclamando: "Benedetto il suo Nome glorioso e sovrano per sempre in eterno" (Jomà, VI, 2). Memore di ciò, lo stesso Catechismo degli Adulti suggerisce di dire in suo luogo "Adonai", cioè "Signore" o di pronunciare un altro titolo divino (48, 6). Dio stesso nel libro dell'Esodo ordina a Mosè di "Non usare il nome del Signore, tuo Dio, per scopi vani, perché io, il Signore, punirò chi abusa del mio nome" (Es. 20, 7).

Ma Dio ha un nome? Egli ha molti titoli come Signore (Dn 2, 47), Creatore (Qo 12,1), Onnipotente (Gb 34, 12), Onnisciente... Nell'Antico Testamento (Es 3,14), rivelandosi a Mosè, lo fa con il nome di " Yhwh ", ovvero "Io sarò sempre quello che sono". Qui Dio non si dà un nome vero e proprio ma indica la sua essenza. L'"Io sono" significa l'"Io esisto", Colui che è l'Esistenza assoluta e per sempre, che ha potere sulla creazione stessa, dal principio alla fine. Questa è la rivelazione di Dio: l'Essere colui che esiste fin dall'eternità, l'Essere increato, l'Essere Amore, Colui che salva. E Dio è la salvezza degli uomini. Come nel libro dei Numeri (21, 4-9) sarà quel serpente di bronzo a salvare gli ebrei dai morsi dei serpenti velenosi, così nel Nuovo Testamento, sarà il Cristo, appeso all'albero della Croce, a essere salvezza per tutti. Ed è in nome della SS. Trinità che si inizia un'attività per metterla sotto la Sua protezione, come è in nome di Gesù che è Vita che si propaga il Vangelo e gli Apostoli compiono miracoli: "Nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno - dice Pietro allo storpio seduto davanti al tempio - alzati e cammina" (At 3, 6). Nel Vangelo Gesù parla a Nicodemo di rinascita offerta da Lui che ha la capacità di mutare il cuore dell'uomo. Imporre un nome per Dio significa conoscere, amare profondamente e personalmente, dal suo Essere, l'uomo. Dio chiama ogni uomo per nome, sia nel bene che nel male, come Adamo, Eva e Caino dopo la colpa ma anche i profeti, Davide e Samuele e gli apostoli e affida a ciascuno una missione da svolgere sulla base della propria identità e capacità. La coscienza e gli avvenimenti diretti sono il mezzo di cui si serve Dio nella storia personale per la chiamata.

Nel battesimo, imporre un nome significa rinascere a vita nuova. Così i religiosi, prima del Concilio Vaticano II, al momento della loro professione religiosa, mutavano il nome perché segno d'inizio di vita nuova, operata nell'adesione totale a Cristo, vera salvezza. Portare un nome, proprio o comune, vuol dire essere coerenti, fino alla morte, della propria identità e appartenenza (Lettera a Diogneto). Così come l'essere cristiano significa vivere fino in fondo il proprio credo, fino al punto da far dire all'Apostolo Paolo che "Non sono più io che vivo: è Cristo che vive in me" (Gal 2, 20). Così hanno fatto gli Apostoli e tutti i martiri che, dall'inizio del Cristianesimo, hanno dato la vita come il Maestro "perché facciate come vi ho fatto a voi" (Gv 13, 15).

Il nome, dunque, ha un potere intrinseco che se utilizzato correttamente esprime la forza di chi lo porta e diviene un'ancora di salvezza se gli si dà l'energia che solo la fede può dare. A questo scopo "Dio lo ha innalzato sopra tutte le cose e gli ha dato il nome più grande. Perché in onore di Gesù, in cielo, in terra e sotto terra ognuno pieghi le ginocchia, e per la gloria di Dio Padre ogni lingua proclami: Gesù Cristo è il Signore" (Fil 2, 9-11).

SALVATORE AGUECI

Scritto Tuesday, 12 May 2015 alle 11:15 nella categoria Chiesa, Cultura e società, Sociale. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. Puoi lasciare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.


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