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La primavera dei non-primaveristi

Da Gynepraio @valeria_fiore

Io detesto la primavera. Nonostante sia la stagione in cui sono nata, la più cantata, la più femminile. A me, della rinascita della natura non importa niente, perché sono gretta e materialista, e non ci vedo nessuna metafora della vita che risorge (nella mia scala di valori, Pasqua sta a Natale come cacca a cioccolato). L’imprevedibilità meteorologica mi snerva. Quelle poche volte che sono andata da qualche parte per il 25 aprile, o il 1 maggio, ho sempre beccato un tempo da lupi. Tendenzialmente questi ponti cadono sempre male, tipo di mercoledì, e poi comunque non c’avrei i soldi. Non mi si risvegliano gli amorosi sensi e non mi sono mai innamorata a primavera, anzi a dirla tutta le peggio sventure della mia vita sentimentale mi sono accadute tra aprile e maggio. Io non sono una primaverista.

Sono sempre stanca e spossata, ho sonno alle 10, e una fame chimica perenne. La primavera fa affiorare tutti quei problemi che avevo abilmente nascosto sotto il tappeto. Il mio occhio (auto)critico, stranamente placatosi durante l’inverno, in primavera torna alla ribalta più tagliente di prima, riportando in auge 2 antiche piaghe: non ho niente da mettermi e sono pallida.

Nel mio caso, “non ho niente da mettermi” è una affermazione vera. Io mi rifiuto, ormai da diversi anni, di acquistare abiti primaverili. Sospendo il cappotto il 31 marzo (ci vorranno pure delle regole, in ‘sto mondo che va a rotoli) e gli stivali il 30 aprile. In mezzo, niente. Non ho una giacchetta mezzo peso, di scarpe primaverili non ne conosco. Gli orridi colori pastello da Easter Bunny -l’azzurro fiocco-di-neonato, il giallino canarino-sgozzato, il lilla vomito-di-ubriaco-, mi stanno malissimo.

Per l’incarnato, nulla da fare. Lampade non me ne faccio: me ne servirebbero 4 consecutive perché se ne apprezzasse anche solo lievemente il risultato. Il mio pallore, purtroppo, non è gotico: non c’è nulla di austero, misterioso, notturno nel mio incarnato. Non è neppure vittoriano: non parla di diafano pudore, sobria eleganza, angelica morale. Il mio pallore è quello delle operaie della prima rivoluzione industriale, che denuncia una vita di malattia, stenti e privazioni, grigiore, stanchezza, tisi. Ieri, salendo in motorino mi si sono sollevati i pantaloni, lasciando a vista: scarpa stringata, calzino corto nero accartocciato a fisarmonica e 4 dita di polpaccio color morte per assideramento. Ho seriamente pensato di tornare a casa a cambiarmi.

Insomma, per me la primavera è solo un lungo periodo in cui ho alternativamente troppo caldo/troppo freddo, sonno e/o fame, sono vestita di merda, sembro tubercolotica e bolsa come Varenne dopo una cura di cortisone. Poi un giorno, magicamente, mi sveglio e c’è una certezza: fa indiscutibilmente caldo. Posso mettermi abiti inequivocabilmente estivi e scarpe aperte con le dita di fuori, mangiare le pesche e fare il bagno nel mare: poiché le regole fanno sempre comodo, tale date coincide con il 30 maggio. A quel punto, posso spostare il focus della mia attenzione verso i problemi di stagione: organizzare le vacanze e la relativa valigia, maledire la bruttezza dei miei piedi, la ricrescita pilifero-ungueale e il sovrappeso, che -molto più del pudore- m’impedisce di andare in giro scosciata, scollata e ignuda come segretamente vorrei fare.

Inizio a respirare e vedere la luce in fondo al tunnel dopo il 1 settembre. L’arrivo del freddo viene onorato con un importante rituale, schedulato il 15 settembre: lo sfoderamento della copertina di rinforzo, utilissima in caso di bruschi cali della temperatura notturna, che si adagia sul copriletto la sera e si ripiega al mattino ai piedi del letto. Il 1 ottobre faccio un piccolo recall alle divinità dell’Inverno, estraendo collant e stivali. Il 15 ottobre, qualora sia necessario, evoco l’inverno attraverso due riti pagani: l’accensione del riscaldamento e il recupero del piumone dal ripiano alto dell’armadio.Tutta questa danza propiziatoria si conclude il 1 novembre, con l’estrazione dei cappotti dalle loro custodie e soprattutto, l’asportazione del cartellino identificativo rimasto pinzato dopo il passaggio in tintoria.

E lì, finalmente, posso iniziare a pensare al Natale.

primavera e primaverista

 


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