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LA RESA DEI CONTI FRA LE OPPOSTE FAZIONI SINDACALI - La Manovra è l'ultimo atto della “Guerra dei Trentanni” fra CGIL e CISL/UIL

Creato il 05 settembre 2011 da Ciro_pastore

LA RESA DEI CONTI FRA LE OPPOSTE FAZIONI SINDACALI  -  La Manovra è l'ultimo atto della “Guerra dei Trentanni” fra CGIL e CISL/UILCon la Manovra arriva la possibilità di derogare con i contratti aziendali e territoriali ai contratti nazionali ed alla legge. Anche sul licenziamento (ad eccezione per quello discriminatorio, per matrimonio o per gravidanza) e, quindi, all'art.18 dello Statuto dei lavoratori, la legge 300 del 1970 che impone, per le aziende sopra i 15 dipendenti, il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo. D'ora in avanti, un accordo a livello aziendale o territoriale, raggiunto a maggioranza dai sindacati più rappresentativi, sarà sufficiente anche per licenziare.Non è dato sapere, mentre scrivo, se il provvedimento passerà e con quali modifiche. Il punto, però, è che questo è solo l'ultimo atto di una guerra che si combatte almeno dal 1984 fra CGIL (e parti della sinistra più radicale), da una parte, e l'accoppiata CISL/UIL, sostenuti dai partiti liberisti (o presunti tali), dall'altra.Fu proprio nel 1984, infatti, che il Governo Craxi mise sostanzialmente fine al sistema della “scala mobile”. Per i più giovani, ricorderò che tale era il sistema di adeguamento automatico delle retribuzioni agli incrementi del costo della vita. Quel sistema aveva consentito, negli anni dei tassi d'inflazione a due cifre, di abbattere la conflittualità sindacale derivante dalla necessità di mantenere intatto il potere d'acquisto di salari e stipendi. Un sistema di equa ridistribuzione del reddito che assunse caratteristiche di socialismo reale, soprattutto per i redditi bassi, in quanto, essendo il punto di contingenza fisso, i redditi più alti ne traevano minori vantaggi. Contro la decisione del Governo a guida socialista fu anche indetto un referendum che, però, per la politicizzazione che se ne fece, sancì la sconfitta della CGIL, che lo aveva promosso.Quelle che si confrontavano, in fondo, erano due concezioni opposte della modernizzazione dei rapporti sindacali ma anche del Paese stesso. Nel 1984, si materializzò manifestamente una guerra strisciante già in atto da qualche anno. Ricorderete la famosa “Marcia dei 40.000”, quadri e colletti blu della FIAT, che si opposero alla chiusura della fabbrica voluta dai Sindacati, all'ora unitari. In quel momento si creò la frattura nel mondo del lavoro che ancora oggi si manifesta mediante l'ennesimo attacco all'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Non dimentichiamoci, peraltro, che Sacconi, attuale Ministro del Lavoro, era allora nella componente socialista della CGIL, ascoltato consigliere di Craxi. Componente che non tardò a scegliere il sostegno alle politiche riformiste del leader socialista. Anche oggi, si tenta di far passare la sostanziale abolizione del divieto di licenziamento come un elemento fondamentale per incrementare i livelli occupazionali. La risibile motivazione, che ne dovrebbe sostenere la validità, risiede nell'indimostrata correlazione fra libertà di licenziamento e maggiore propensione all'assunzione. È come se per risolvere il problema della fame nel mondo, si consigliasse agli affamati di fare il digiuno integrale. Si vorrebbero risolvere i problemi strutturali che determinano una disoccupazione, soprattutto giovanile, ai più alti livelli mondiali, mediante una libertà di scelta del singolo lavoratore da parte del datore di lavoro. Il motivo reale di tale accanimento propedeutico sull'art. 18 risiede, invece, nel tentativo di ribaltare i rapporti di forza fra le due fazioni del sindacalismo italiano. La CGIL, e più ancora la sua ala militarista FIOM, fa della difesa ad oltranza di quel principio, la ragione stessa della sua attuale esistenza e della sua sopravvivenza futura. È, in sostanza, la difesa di un principio che identifica la forza lavoro in un unicum inscindibile: difendere ogni singolo lavoratore significa difenderli tutti. Tale visione era figlia del sistema di produzione fordista, in cui un operaio alla catena di montaggio era uguale a tutti gli altri, visto che la mansione da svolgere era così standardizzata da non richiedere specifiche capacità individuali. A questo si aggiunga che allora non esisteva alcuna possibilità per le grandi imprese di assumere per chiamata diretta e, quindi, di scegliersi il singolo lavoratore. Con la sostanziale abolizione dell'art. 18, si prova a ribaltare definitivamente questa condizione (anche se con alcune garanzie). Una regressione gravissima per la CGIL/FIOM, un sacrificio necessario per creare sviluppo a parere di CISL/UIL/partiti liberisti.Nessuno, è vero, può sfuggire al dramma dell'uomo moderno, vittima di una globalizzazione perversa che importa dall'esterno regole che devono, gioco forza, implementarsi nel sistema interno delle relazioni sindacali. L'economia globale, invece, di trasferire i diritti laddove non sono presenti storicamente (Brasile, Russia, India e Cina), impone la loro limitazione in quei paesi in cui, secoli di lotte sindacali, li avevano fatti prevalere e considerare acquisiti definitivamente. Invece, non è così. Se si applicano solo le leggi del mercato, fatalmente, i diritti dei lavoratori verranno uniformati, ma verso il basso, però.Le motivazioni alla base della posizione di CISL/UIL sono essenzialmente di tipo tattico. Come è possibile, infatti, scardinare il ruolo egemone della CGIL, svincolandosi dalla sua supremazia numerica e di autorevolezza? Semplice, minando alla base la sua stessa monolitica difesa dell'occupazione mediante la forza dirompente che determinerà l'abolizione dell'art. 18. Politicamente, peraltro, tale scelta è sostenuta da quei partiti che trovano nel mondo della piccola e media impresa il loro elettorato di riferimento. È in quelle realtà, infatti, che la libertà di licenziamento potrebbe dare maggiori ritorni in termini di stringente e subdolo controllo sulla produttività. Il piccolo padroncino potrebbe usare senza scrupoli la minaccia del licenziamento come strumento unico per restare sul mercato. Invece di puntare sull'innovazione di prodotto e di processo, si punta così su le vecchie arme dell'aumento dei livelli produttivi. Non comprendendo che lo sviluppo economico deve basarsi sulla ricerca e sullo sviluppo di nuove tecnologie. Insomma, continuare a stare sul mercato con prodotti vecchi, tentando di produrne di più, piuttosto che provare a produrre beni a più alto valore aggiunto.Venendo alla situazione del TPL, mutatis mutandis, la situazione è molto simile. Si preferisce fare tagli orizzontali ai servizi, piuttosto che aumentare la produttività mediante un'innovativa politica dell'organizzazione del lavoro che produca maggiore produttività ed un incremento nella qualità dell'offerta. Insomma, in entrambi i casi, politiche vecchie per problemi nuovi. Nel breve periodo, forse e dico forse, si vedranno anche dei risultati ma non sono la soluzione strutturale ai problemi.
Ciro Pastore – Il Signore degli Agnelli
leggimi anche suhttp://lantipaticissimo.blogspot.com/2011/09/trasporto-pubblico-come-la-sanita-non.html
http://golf-gentlemenonlyladiesforbidden.blogspot.com/2011/08/come-e-quando-fare-sesso-in-ufficio.html

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