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La resistenza disperata di Bersani a difesa dell'ultimo bastione della partitocrazia italiana

Creato il 12 marzo 2013 da David Incamicia @FuoriOndaBlog
La resistenza disperata di Bersani a difesa dell'ultimo bastione della partitocrazia italiana Il voto del 24 e  25 febbraio scorsi ha segnato una svolta epocale nella vita politica italiana, perfino più dirompente di quella che vent'anni prima aveva portato alla caduta della Prima Repubblica per via giudiziaria e referendaria. Una svolta che però non ha prodotto gli auspicati sbocchi istituzionali capaci di risollevare il Paese dal drammatico declino economico e sociale nel quale è sprofondato, ma solo la rovinosa  (e meritata) sconfitta della partitocrazia autoreferenziale e corrotta della Seconda Repubblica per mano di milioni di italiani stanchi e inferociti che hanno riposto la proprie speranze di cambiamento, per molti versi irrazionali, assecondando i comizi teatrali di un attempato comico genovese. Si è trattato, insomma, di una svolta poderosa sul piano della protesta sociale espressa nelle urne, rimasta tuttavia incompiuta sul piano politico perché chi ha vinto non ha vinto davvero e chi ha perso ha in fondo anche un po' vinto.
Al di là dei risultati reali, dai quali nessuna credibile prospettiva di governo pare poter scaturire, due sono i veri vincitori dell'ultima tornata elettorale: Grillo e Berlusconi. Il primo certamente a livello politico essendo risultato il suo movimento il più votato dagli italiani, il secondo a livello personale avendo dimostrato per l'ennesima volta di essere più in grado degli altri leader di comprendere e interpretare gli istinti che agitano la pancia del Paese. E qui non intendo partecipare al festival dell'ipocrisia nel quale si stanno puntualmente cimentando certi settori elitari della politica e dell'informazione, che come spesso accade si auto assolvono rispetto al desolante scenario generale trovando più comodo dare addosso agli italiani cialtroni per aver creduto alle solite promesse del Cavaliere o alla propaganda a buon mercato dei 5 Stelle. Mi limito invece a rilevare qualcosa già nota a tutti: noi italiani, da sempre, siamo recalcitranti alle regole e reagiamo con fastidio misto a terrore dinanzi a ogni novità che rischi di mettere in discussione le certezze acquisite; siamo fondamentalmente anarcoidi e individualisti, abituati a schivare le responsabilità e a percorrere ogni utile e tranquillizzante scorciatoia. Ma in democrazia - e la nostra è una democrazia imperfetta come tutte le altre democrazie, con in più le aggravanti socio-antropologiche innanzi descritte - la volontà dei cittadini è sovrana e va rispettata sempre e comunque.
Ciò non significa, allo stesso modo e in automatico, che chi perde le elezioni è politicamente o finanche eticamente peggiore di chi le vince, perché ogni sconfitta deve essere motivata solo alla luce degli intrinseci limiti oggettivamente legati al programma e alla campagna elettorale. Nel nostro caso, sempre tentando di guardare oltre i risultati elettorali reali, non si può non affermare che fra i contendenti iniziali più accreditati sono Monti e Bersani quelli da considerare come veri sconfitti. Il Professore, già congenitamente più debole rispetto agli avversari per la propria inesperienza sul difficilissimo terreno della competizione politica, ha pagato ulteriormente da un lato per ragioni indotte, a causa di un messaggio pur coerentemente troppo riformatore per una società come la nostra che, come ricordato, è tradizionalmente conservatrice e mai disposta a rinunciare ai piccoli o grandi privilegi per un fine superiore, e dall'altro per proprie ingenuità che hanno fin da subito segnato negativamente la campagna elettorale, in particolare l'alleanza con personalità politiche di lungo corso immediatamente identificate nell'opinione pubblica come la peggiore espressione dell'odiata Casta.
Bersani merita una riflessione a parte. Le sue parole pronunciate a caldo la sera stessa dello spoglio delle schede - "Non abbiamo vinto, anche se siamo arrivati primi" - sembravano preludere a una presa d'atto più circostanziata e matura di quanto verificatosi nelle urne, ma l'impuntatura di principio e le consuete alchimie politiciste che sono seguite ci hanno fatto purtroppo tornare ben presto coi piedi per terra. Anzi, nella già ampiamente sperimentata palude dei tatticismi ideologici. Tanto che se dopo il voto possiamo parlare di svolta politica incompiuta è innanzitutto perché il Pd, assieme ai suoi satelliti di sinistra, conferma di essere la parte che più fatica a connettersi col sentimento di cambiamento che da tempo pervade la società italiana. E allora, prendendo per buone le parole di Bersani che ha dichiarato di non aver vinto, proviamo ad analizzare le ragioni della sua sconfitta.
Se per quasi un ventennio, dalla fine della Prima Repubblica fino di fatto all'ultimo voto, la maggioranza degli italiani ha preferito affidarsi a un ambiguo e spregiudicato signore come Berlusconi e, da ultimo, anche a un paffuto uomo di spettacolo privo di pedigree politico, ci deve essere qualche ragione ben più seria e profonda della semplice e presunta stupidità degli italiani. E forse sarebbe ora che il principale partito della sinistra italiana iniziasse a interrogarsi sui reali motivi della propria atavica inadeguatezza a farsi percepire dall'elettorato come credibile e affidabile forza di governo. La verità è che il Pd emana un insopportabile olezzo di naftalina partitocratica, attraverso i volti della classe dirigente e le parole d'ordine che esprime. E' l'ultimo baluardo di un sistema arrogante di potere che racchiude in sé le peggiori caratteristiche della Prima e della Seconda Repubblica. Un partito che non soltanto pretende di coincidere con lo Stato nell'esercizio delle funzioni di governo centrale e locale, ma che al tempo stesso vuole farsi anche società (controllandola in modo capillare) come dimostrano le vicende del Montepaschi e delle Coop o, più efficacemente, le assolute coincidenze ideologiche coi settori del sindacalismo più conservatore.
Quando si tenta di far rilevare tali e tante deficienze ai dirigenti e militanti del Pd, partono sempre reazioni scomposte e piccate. E sempre improntate a una sorta di rivendicazione di superiorità morale rispetto agli altri soggetti in campo. Loro, insomma, pretendono di essere i migliori punto e basta. Pronti ad abbattere con ferocia ideologica chiunque voglia metterli in discussione. Anche a costo di farsi del male da soli. In fondo, sarebbe bastato riconoscere piena legittimità alle idee portate avanti da Renzi per raccontare oggi un'altra storia. Invece il giovane sindaco fiorentino era diventato per la sinistra il nemico numero uno, colpevole di voler rendere più moderna una forza politica comodamente rinchiusa nel proprio antico recinto culturale di riferimento. Sarà pure retorica postuma, ma con Renzi candidato premier (al netto della farsa delle primarie organizzate solo per impedirne l'investitura) si sarebbe risparmiato al Paese l'ennesimo ritorno di Berlusconi, si sarebbe contenuta la foga anti sistemica che ha portato all'exploit dei grillini, si sarebbe insomma aperta una fase davvero nuova per l'intero assetto politico italiano. E la sinistra, finalmente, avrebbe potuto fregiarsi dell'aggettivo "riformista" affrancandosi dall'evidente handicap storico di essere vista sempre e soltanto come post-comunista. Inoltre, come se non bastasse la punizione inflitta al blasfemo Renzi, il Pd ha poi preferito impiccarsi al radicalismo naif di Vendola rinunciando all'opportunità di un'alleanza europeista con Monti e confermando una volta di più la propria innata propensione al tafazzismo.
La politica, si sa, non si fa coi se e coi ma. Tuttavia, occorrerebbe sforzarsi di farla predisponendosi a qualche pur piccola rivoluzione identitaria. Che nel caso odierno del Pd sarebbe quella di ricorrere al linguaggio della responsabilità in chiave strategica, rivolgendo un appello per la governabilità a tutte le forze presenti in parlamento. Bersani, infatti, sa bene che assai difficilmente riuscirà ad ottenere la fiducia dei grillini in Senato e a far nascere il suo agognato governo, eppure non ha altra strada che quella di insistere nell'approccio tattico di richiedere un atto di responsabilità in via esclusiva al Movimento 5 Stelle. A costo, di nuovo, di farsi ulteriormente del male da solo. Perché fra l'Italia e "la ditta", che del resto nella visione del Pd coincidono, bisogna sempre salvare la seconda. O quantomeno fargli correre i rischi minori. Un accordo con l'odiato Berlusconi significherebbe per il Pd perdere il consenso di quello zoccolo duro di sostenitori che ancora professano l'ortodossia della sinistra tradizionale, mentre uno coi grillini sarebbe effettivamente molto meno indolore. Paradossalmente, dunque, per salvare il sistema su cui il Pd si regge, fatto di gente (di solito politici trombati) che dipende economicamente dall'apparato e di diffuse clientele sul territorio possibili solo grazie all'enorme finanziamento pubblico ricevuto, Bersani non può che cercare la sponda proprio di chi ha costruito le proprie fortune politiche lottando contro quello stesso sistema.
E' molto più che un vicolo cieco. E mentre Bersani e i suoi si arrovellano al chiuso delle grigie stanze di bottega su come sopravvivere a quello che, specialmente con un ritorno immediato alle urne, quasi certamente rappresenterebbe il loro definitivo tracollo politico ed elettorale (del resto, se non hanno vinto stavolta...), e contemporaneamente il redivivo Caimano utilizza tutti i suoi potenti strumenti per salvare se stesso dalla giustizia, qua fuori l'Italia continua a bruciare. E dalle fiamme non può che uscire ancor più rafforzato il movimento di Grillo, abile sia a fomentare che a sfruttare l'enorme malcontento popolare. Non ci resta, allora, che confidare di nuovo nel saggio Napolitano, a cui è affidato il difficile compito, proprio come nel novembre del 2011, di inventarsi una via d'uscita istituzionale in grado di salvaguardare i superiori interessi della Nazione anteponendoli a quelli miserrimi dei singoli partiti o leader politici che continuano ostinatamente a rifiutare di condividere le responsabilità.
La resistenza disperata di Bersani a difesa dell'ultimo bastione della partitocrazia italiana


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