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la tazza di latte

Da Foscasensi @foscasensi

La mia Migliore Amica non abitava poi così distante da casa mia: si trattava di attraversare un ponte e prendere una piccola strada che attraversava il territorio detto “della bonifica”. Quella di cui sto parlando è una coltre di torba dell’estensione di una città, a nemmeno due chilometri dalla costa, dalla quale è stata pompata per anni un’acqua scura e satura di sali di potassio, e che adesso è l’avamposto più desolato della più remota periferia. Lungo le strade ci sono campi polverosi nei quali d’estate crescono pomodori e zucchine, e serre di fiori. Ogni tanto una vite o un pioppo farneticano al confine dei campi. Nei luoghi in cui l’opera di drenaggio non ha funzionato bene scintillano pozze di canne grigio fumo e colonie di rane. In questi posti più selvatici della periferia e più brutti della campagna ogni dieci giorni, all’alba, va in scena un grandioso nascondino per il quale un gruppetto di volontari della Protezione Civile si disperde nei capanni di caccia, in fondo ai fossi asciutti oppure dietro gli alberi più imponenti. Quando le persone sono ai posti qualcuno lancia un fischio che è il segnale per iniziare la ricerca: la squadra di volontari scioglie i cani ed essi si lanciano come una muta a caccia di uomini. Quando raggiungono il disperso e abbaiano come è stato loro insegnato vengono premiati con un pezzo di carne.

Mio padre lasciava che lo seguissi nelle esercitazioni della Protezione Civile. A notte ancora alta ci svegliavamo e preparavamo gli oggetti per la ricerca. Io, che nella vita quotidiana trascuravo l’esercizio fisico e non coltivavo alcuna passione al di fuori della scuola, al suono di quelle sveglie avventurose scattavo in piedi senza fatica, indossavo una tuta di lana e una mantella lunga fino alle caviglie, scivolavo in cucina e scaldavo due tazze di latte col batticuore di un esploratore da romanzo. E mentre la superficie del latte nel bricco si faceva grinzosa e ribollente avevo già imbottito due panini di salumi, li avevo spalmati di formaggio e, così farciti, li avevo avvolti in un foglio di carta oleata che al momento del pranzo, fuori, nei campi “della bonifica”, ci sarebbe servito anche da sommaria tovaglia e da ancora più sommario tovagliolo. In quel mentre mio padre entrava in cucina vestito con una giacca mimetica e uno spesso cappello di lana. Sulla spalla aveva una sacca che conteneva una bottiglia d’acqua minerale, un pezzo di corda, un coltello sbeccato e un tovagliolo ripieno di carne secca e croste di formaggio.

Facevamo colazione in silenzio, tuffando pezzi di pane raffermo nel latte e succhiandoli con cautela per non scottarci la bocca. I lampioni accendevano la condensa sui vetri e il riflesso delle stelle ancora alte. Nelle camere al di là del salotto dormivano mia mamma e mio fratello minore e io li immaginavo come due pesi leggeri e celesti a galla in una specie di sogno. Certo, le cose sarebbero cambiate, mio padre sarebbe cresciuto e mi avrebbe dimenticata per un’amicizia più consueta con mio fratello, che nel frattempo sarebbe diventato prima un ragazzo e poi un uomo, con una posizione lavorativa migliore della mia, una forza più sana in corpo e una franchezza di carattere più gradevole da trattare. Eppure ricordo ancora con quale passione, a dieci anni, m’ingegnassi per preparare quei pasti campestri, di come arrancassi con le mie gambe corte fra i solchi di granturco, di come mi lasciassi morsicare le mani dai cani eccitati, e di quanto ci siamo amati davanti a quelle tazze di latte.


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