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La triste corsa di Marco Pantani

Creato il 11 luglio 2013 da Simo785

 “Per abbreviare la mia agonia”.

La triste corsa di Marco Pantani (by Bruce Wayne)

 

 (by Bruce Wayne)

Questo disse Marco Pantani a Gianni Mura, anni ed anni fa. Ma la domanda a cui rispondeva era ben più serena e leggera di quelle che la sua vicenda di uomo e di ciclista potrebbero farci venire in mente. Perché il buon Mura, semplicemente, gli aveva chiesto: “Marco, perché vai così forte in salita?”. Deve averci pensato, l’utente di Wikipedia che ha messo questo scambio di battute in esergo alla pagina dedicata a Pantani, al fatto che una risposta del genere sembra quasi il riassunto – la mise en abyme, dicono i critici letterari – di quel che l’atleta romagnolo si è trovato a vivere. Perché in effetti il Pantani post-’99, quello distrutto dai giornalisti che inzuppavano il pane nella sua presunta consuetudine al doping e che gettavano un’ombra oscura anche sulle sue vittorie al Giro d’Italia e al Tour de France, sembra per davvero essersi lanciato in una folle corsa finalizzata a porre fine a un’agonia. Un cupio dissolvi di quelli che colpiscono le persone grandi. O le persone che hanno a che fare con cose più grandi di loro. Marco Pantani non era un Eddy Merckx.

La triste corsa di Marco Pantani (by Bruce Wayne)

Per lui essere il numero uno non è mai stato la logica conseguenza di un allenamento scientificamente curato e di una tenacia sorretta dalla passione animalesca del correre. Al contrario, per il ciclista di Cesena essere primo sembrava quasi essere la doverosa ricompensa che gli dei – o il destino, che dir si voglia – porgono ad un loro figlio fedele ma non eccessivamente talentuoso. Intendiamoci: in salita era formidabile. E vederlo rivoltarsi la bandana in testa – segno che stava per scattare – faceva venire, semplicemente, i brividi. Ma non era un numero uno. Non per nulla il “grande navarro” Miguel Indurain, prima di lui, infilò cinque Tour de France di fila, e dopo di lui fu la volta del chiacchieratissimo Lance Armstrong, coi suoi sette primi posti ed i processi per doping. Marco Pantani non ottenne mai nulla di tutto questo.

Lui vinse un Giro e un Tour: stop. Ma per lui essere al primo posto non era, poi, questo gran problema. Per Marco Pantani correre su due ruote era un piacere ed una fortuna prima che una scommessa con se stesso, ed i compagni di squadra non erano pomodori da spremere al fine di emergere in vetta alle classifiche ma amici con cui condividere le gioie dello sport. E forse è per questo che non assorbì il colpo infertogli a Madonna di Campiglio il 5 giugno del 1999. Perché lì i medici dell’UCI gli sbatterono in faccia il fatto che correre su due ruote non è semplicemente un divertimento, un gioco, un modo per dimenticare – sia pure solo per qualche ora – che le salite vere sono quelle della vita e non quelle del Gran Sasso. Lì Pantani fu costretto a capire che anche le due ruote appartengono al mondo dei “grandi”, degli “adulti”, e che c’è chi è disposto ad imbrattarlo con logiche più evolute – ma anche più compromesse – di quelle del gioco.

Perché a onor del vero va detto che, in effetti, quel giorno Pantani non fu trovato positivo ai controlli antidoping. Risultò che la presenza di globuli rossi nel sangue fosse pari al 52%, superiore del 2% al limite massimo consentito, e dunque fu escluso dal Giro d’Italia al fine di veder tutelata la sua salute. Furono il ciclista Jesus Manzano e l’ex fidanzata del “pirata” Christina Jonsson che lo accusarono di essere un dopato. E lui, da questo colpo, non riuscì a riprendersi.


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