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La vecchia cartiera

Creato il 26 settembre 2014 da Criromano
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Inforcata la bici, Dominique pedalava senza fretta; con sé, soltanto un quaderno, una vecchia Leica e la voglia di esplorare i dintorni.
Era la prima volta che percorreva quella strada che, incorniciata da una nuvola di foglie gialle, costeggiava le acque lente e opache del fiume. I contorni della campagna che sfumavano nella nebbia sottile, gli stormi di uccelli silenziosi, la quiete delicata delle prime ore del mattino creavano un’atmosfera surreale.
Lungo il percorso la strada si apriva, inaspettatamente, in un grande spiazzo di cemento. Una piccola diga dagli ingranaggi arrugginiti incanalava l’acqua del fiume e, alle sue spalle, una fabbrica dismessa si stagliava nell’aria fumosa. Un edificio di mattoni rossi, l’intonaco eroso dalle intemperie, ed una ciminiera scura e solitaria era quanto restava di una vecchia cartiera.
Dominique si fermò catturato dall’immagine e dalle sensazioni che quel luogo evocava: pensò a quante storie dovessero essere racchiuse in quelle mura, a quante vite fossero passate di lì. Un edificio di mattoni rossi che raccontava la quotidianità di uomini e donne che avevano lavorato in questo paese e per questo paese; la storia di una generazione che, spesso, aveva lasciato la propria terra, che aveva sofferto e combattuto per i propri diritti. Chiuse gli occhi e gli sembrò quasi di poterle sentire quelle storie, di poter percepire i pensieri e le emozioni di chi, ogni mattina, aveva osservato quello stesso paesaggio dalle finestre quadrettate della fabbrica.
Sbirciò all’interno della fabbrica da una finestra rotta. Cercò l’ingresso trovando una porta malmessa, ne forzò la serratura e i battenti, cigolando, si aprirono su un locale dal soffitto altissimo dove grossi macchinari giacevano nella polvere e nelle ragnatele; ne accarezzò con lo sguardo le forme immaginando lo stridere degli ingranaggi nel dare vita a lunghi fogli di carta. Nell’aria aleggiavano ancora il sentore acre della cellulosa e l’odore del cloro. In fondo alla stanza una stretta scala conduceva al piano superiore che ospitava, dopo una piccola anticamera, quello che doveva essere stato l’ufficio del titolare della cartiera: le pareti rivestite di una sbiadita carta da parati a righe, una robusta scrivania di legno scuro ed una poltrona di velluto verde ingrigita dal tempo e dalla polvere. Al medesimo piano, al fondo di un corridoio, Dominique scorse una porta senza più i cardini che dava su un piccolo ufficio illuminato da una finestra malandata; accanto ad essa c’era una pesante scrivania erosa dai tarli su cui troneggiava una macchina da scrivere con i tasti rotti; in un angolo, vicino ad un attaccapanni con su un vecchio cappello consunto, giaceva un mucchio di faldoni coperti di polvere. Dominique vi si avvicinò, si abbassò e aprì uno dei fascicoli; conteneva buste paga e alcune lettere. Su un foglio ingiallito dal tempo, si decifravano a mala pena una data, Milano 16 settembre 1985, e poi più in basso una firma, Nino Parisi. La polvere lo fece tossire; diede un ultimo sguardo attorno ed uscì.
All’esterno vide un’anziana donna che prima non aveva notato.
Sedeva su un muretto malmesso che dava sulla piattaforma ferrosa della diga, lo sguardo rivolto ad una finestra dell’edificio. Indossava un cappotto scuro troppo largo per il suo corpo minuto ed una vecchia e lisa sciarpa di lana blu che stonavano con i capelli grigi raccolti ordinatamente sulla nuca e le piccole perle che pendevano ai lobi delle orecchie conferendole un’aria composta e dignitosa.
Istintivamente Dominique le si avvicinò, e volse lo sguardo verso quella stessa finestra al secondo piano che l’anziana guardava malinconicamente. La donna, che sembrava non aver notato la sua presenza, ruppe invece il silenzio. Senza voltarsi, con voce delicata che tradiva un impercettibile accento siciliano, disse: “sapessi quanti anni ho lavorato in quella fabbrica. Ogni mattina, all’alba, qualunque fossero le condizioni del tempo, prendevo la mia bicicletta e venivo qui. La ricordo ancora la mia bicicletta, me l’aveva regalata mio marito. Era bella, rossa come il mio colore preferito. Me la regalò quando mi presero a lavorare qui. Mi disse ‘Mela – così mi chiamava mio marito – Mela, adesso hai bisogno di una bicicletta, non puoi andare a lavoro a piedi. Sapevo che era una scusa per farmi un regalo; i soldi erano pochi, sai. Ma accettai di buon grado perché una bici tutta mia non l’avevo mai avuta. Quando ero ragazzina, in Sicilia, rubavo le bici sgangherate dei miei fratelli e pedalavo per ore. Mi sentivo libera. Me lo ricordo ancora l’odore pungente della campagna d’estate, l’erba gialla, alta, il sole bollente. E ricordo anche le botte che prendevo quando tornavo a casa: ero una femmina e dovevo pensare a cucinare e lavare, ma a me quella vita non piaceva. Volevo sentirmi libera, come quando pedalavo in campagna. A vent’anni sposai mio marito Nino. In quel periodo c’era tanta miseria, ma noi eravamo giovani e avevamo tanti sogni. Un amico di Nino che viveva a Milano raccontò che qui la vita era difficile ma che c’erano anche tante opportunità. Fu così che lasciammo la Sicilia ed il profumo dei fiori e dell’erba. Entrambi venimmo a lavorare in quest’azienda, lui come ragioniere e, dopo qualche tempo, anch’io come segretaria. I primi mesi furono duri ma eravamo felici perché ci sentivamo liberi di inventare il nostro futuro. Avevamo tutta la vita davanti a quei tempi. Tutta la vita.”
Su quell’ultima frase la voce le si incrinò.
“La vedi quella finestra al secondo piano? Era la stanza di mio marito e quando la sera lui si doveva trattenere più a lungo, io uscivo e mi mettevo seduta qui, su questo muretto, e lo guardavo lavorare, aspettando che finisse. Faceva finta di arrabbiarsi, mi diceva di tornare a casa, che non aspettassi nell’umido della sera, ma in realtà era contento che restassi. Quando finiva, mi faceva un cenno con la mano, spegneva la luce e correva giù. Da me.”
Si fermò un attimo, poi riprese.
 “Non c’è più, sai, da un mese non c’è più. Ma la vita è stata generosa con noi. Nonostante le difficoltà, abbiamo vissuto insieme, sempre l’uno a fianco all’altra. Le giornate di lavoro erano lunghe, pesanti. Non avevamo diritto quasi a nulla e ad ancor meno avevano diritto gli operai che lavoravano qui. Sentivo i capi urlare e minacciarli. E i sindacati non ci aiutavano abbastanza, né a noi né a loro. Ci iscrivemmo anche al partito, servì a poco, ma noi ci abbiamo creduto, abbiamo lottato e ci piaceva pensare di aver fatto qualcosa per migliorare questo mondo”.
Dopo una breve pausa in cui si perse tra i ricordi proseguì: “poi la giornata finiva e, pur stanchi, passavamo intere serate a leggere di viaggi in terre lontane; non avevamo soldi per viaggiare, ma era bello quando arrivava la domenica e potevamo scappare al lago in bicicletta, stenderci sul prato e sognare ad occhi aperti guardando il cielo. Quello era il nostro modo di essere liberi. Mai nessuno ha potuto rubare i nostri sogni, quelli realizzati e quelli che sono rimasti nella nostra mente.
E, ora, io torno qui, ogni mattina. Mi piace ricordare quei tempi. E mi piace pensare che lui sia ancora lì, dietro a quella finestra, a lavorare, guardandomi distrattamente”.
Si voltò verso Dominique mostrando un viso con una profonda ruga che solcava la fronte, il dolore e, allo stesso tempo, un senso di pace negli occhi ancora blu.
Si alzò a fatica dal muretto.  Gli rivolse un ultimo sguardo, un tenue sorriso e si allontanò.
Dominique la guardò camminare lentamente stringendosi nel cappotto troppo largo finché la sua figura svanì nella nebbia leggera.
Alzò lo sguardo verso la finestra malandata. Pensò a quella storia, a quel pezzo di intimità che la donna aveva voluto condividere con lui, pensò a quel passato e al presente. Pensò a sé, alla propria storia e alla storia di tutti quei ragazzi che viaggiano per il mondo cercando il proprio futuro e la propria libertà.
Ripensò alla sensazione di fiducia che aveva provato mentre l’aereo si staccava da terra per portarlo verso una nuova vita e ripensò alla sua città mentre sfumava all’orizzonte: erano passati quattro anni da allora e Dominique non poteva più ignorare il senso di profondo disagio che avvertiva e che l’incontro con l’anziana signora aveva acuito. Pensò con amarezza a tutte le volte in cui aveva permesso a degli estranei di entrare nella sua vita, sgretolando le sue aspirazioni e cancellando la sua libertà. Pensò ai diritti quotidianamente calpestati: gli stipendi pagati saltuariamente, gli orari di lavoro massacranti, le domeniche perdute, le vessazioni. A cosa erano servite le battaglie e i sacrifici delle generazioni passate? La cieca illusione della donna cedeva purtroppo il passo al disincanto della sconfitta e alla rabbia che Dominique leggeva dentro e fuori di sé. Aveva lasciato la sua città per diventare giornalista; avrebbe voluto scrivere e fotografare la vita ed invece si trovava inchiodato in una redazione, imbrigliato in assurde logiche dettate da equilibri che con la vita nulla avevano a che vedere, in un paese in cui i diritti sono solo petizioni di principio, norme mal scritte in antiquati testi di legge.
Ma non era ciò che voleva per sé e per la sua giovane famiglia.
“Nessuno può rubare i nostri sogni e la nostra libertà” aveva detto la donna.
La mente andò oltralpe. Ancora un’illusione forse, ma valeva la pena tentare, la sua bimba di pochi mesi aveva ancora diritto di sognare.
Afferrò la bici e, sotto i raggi tiepidi del sole del mattino, in una nuova consapevolezza, Dominique riprese la sua corsa verso il futuro e, forse, stavolta verso la libertà.

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