Magazine Cinema

La vie de Jésus - L'età inquieta

Creato il 14 febbraio 2012 da Robydick
La vie de Jésus - L'età inquieta1997, Bruno Dumont.
Ci sono film che si vedono, altri che si guardano, altri ancora che si sentono. Il cinema di Bruno Dumont, a partire da questo suo primo lungometraggio, premiato con la menzione speciale a Cannes, rientra indiscutibilmente nella terza categoria, così come i film europei rientrano di solito nella prima e gli americani nella seconda.
Che significa che un film si sente? Significa che nel momento in cui penetra nei tuoi occhi, contaminandoli o costringendoti ad aprirli, il film cessa di essere un prodotto del regista destinato a un pubblico, ma diventa tuo e basta. Tuo e di nessun altro. Lo percepisci dentro, a fondo, ti scava nell'anima fino a quando non riesci più a liberartene e, strappandoti i capelli mentre ti chiedi che diamine hai fatto, perché hai scelto quella pellicola piuttosto che un'altra, comprendi che in realtà è la pellicola che ha scelto te, e che tu ed essa siete le schegge complementari della medesima essenza. Se così non fosse, L'età inquieta sarebbe un film oscuro, volutamente criptico e ambiguamente ermetico, fatto di suggestioni sopite, di delicatezze non dichiarate, insomma un film incomprensibile ai più, onorato da pochi, vituperato da molti.
A leggerne la trama, d'altronde, si direbbe un film sulla vita di provincia. A sentire la critica, sembrerebbe piuttosto una pellicola sulla noia, sulla disperazione e sull'assoluta mancanza di stimoli che porterà i giovani di uno sperduto villaggio fiammingo, Bailleul, a coltivare il germe del razzismo prima, a commettere un brutale omicidio poi. Quando lo guardi, però, ti accorgi che esso è molto più che la somma delle sue parti, e se la “storia” è in sostanza quella del giovane Freddy e della sua compagine di amici sbandati, cresciuti nei sobborghi periferici, senza amore né dolore, il “messaggio” non si può ridurre al ritratto di una gioventù apatica e disamorata. No, L'età inquieta è indefinibile dal punto di vista narrativo e controverso sul versante linguistico, perché racconta senza raccontare, e perché le sue immagini non si condensano nelle inquadrature che le delimitano, ma diventano qualcos'altro, in costante e fuggevole mutazione.
L'esordio di Dumont è innanzitutto spazio, dolore e bellezza. È l'aria rarefatta delle Fiandre, l'odore elettrico dei suoi cieli pesti e piovigginosi, il puzzo di erba bagnata che ti schiaffeggia il naso. Pensate a un'umidità afosa che vi entra nelle giunture come nessun 3D saprà mai fare. Pensate a una distesa infinita di colline, di un verde plumbeo e metafisico, che solcano in un saliscendi gibboso un orizzonte senza orizzonte, dove la linea che separa cielo e terra si fa così confusa da perdersi tra nuvole minacciose. Senza che non succeda mai nulla per davvero. Aspettiamo e speriamo che qualcosa turbi quella quiete sospetta e sconveniente, ma nell'attesa ci dimentichiamo presto di tale proposito, e allora la bellezza del paesaggio scivola nella malinconia di volti troppo veri perché non ci facciano del male, le nostre paure diventano quelle dei personaggi, le nostre sensazioni le loro, la nostra impotenza una altrimenti inconfessabile ammissione di debolezza.
C'è Freddy (David Douche), che è un ragazzo disoccupato, figlio di una barista dal locale sempre vuoto, e per riempire il tempo sfreccia a bordo di una moto rombante, insieme ad altri compagni disperati ancor più di lui, su per le colline, per strade sempre uguali che non conducono da nessuna parte se non al medesimo avvilimento. E poi c'è la sua ragazza, l'incantevole Marie (Marjorie Cottreel) dal nome salvifico, una cassiera che quando smonta dal lavoro bighellona per la campagna insieme al fidanzato, accompagnandolo ovunque e scatenando l'infastidita gelosia dei suoi compagni. La loro vita è così, giorno dopo giorno, monotona, uniforme, totalmente priva di prospettiva. Una piattezza scandita da gite reiterate, da saltuarie visite in ospedale (dove il fratello di un loro amico, sieropositivo, si sta lentamente spegnendo), dalle scopate selvagge che, come un contrappunto animalesco, fanno da complemento alle funeste immagini di morte. Il sesso e la distruzione. L'impulso alla vita e il progressivo annullamento di essa. L'uomo dominatore, la donna dominata, la natura, indifferente, glaciale, che assiste con la stessa disinteressata impassibilità al compimento dei suoi cicli.
Ecco però che una mattina una famiglia di arabi giunge in paese. Il giovane Kader (Kader Chaatouf) s'infatua di Marie, la segue ovunque, cerca in lei quel calore che nessuno, in quel posto sperduto, ha mai saputo provare per un altro essere umano. E quando Freddy e il suo gruppo molesteranno sessualmente una ragazzina, nella scena più potente e disturbante dell'intero film, spinti e schiacciati da quel tedio esasperato, da quella stessa frustrazione a cui nessuno riesce a sfuggire, Marie rinnegherà il suo uomo per concedersi all'immigrato. La diffidenza nei confronti del nuovo venuto si trasformerà allora in odio, ma nessuno dei presenti, attori di una tragedia che al tempo stesso ha il sapore di una parabola (non a caso il titolo originale è proprio La vie de Jésus), si renderà conto che l'intolleranza è sempre l'anticamera della persecuzione. Se non quando sarà troppo tardi.
È difficile trovare un filo conduttore in questo film esplosivo, pieno di energia, di equivocità. Ed è difficile spiegare in parole quello che si prova quando le sue immagini meravigliose ti scorrono davanti. L'età inquieta è bellissimo, e anche se può sembrare riduttivo definirlo con un aggettivo non particolarmente originale, è comunque l'unico vocabolo che ti viene in mente quando giungi ai titoli di coda. Ci sei dentro e non ne puoi più uscire, ed è solo la semplicità di una parola che lampeggia tra le tue dita mentre scrivi queste note, è solo la frivolezza di un epiteto abusato e fanciullesco a riempire la tua concentrazione. Perché ha tutta la potenza di un'opera prima, la fragilità di un gesto d'amore, l'ambivalenza di un atto di fede. La spiritualità si intreccia con la filosofia, la cultura si trasforma in un complemento della natura piuttosto che nel suo opposto, la critica sociale un'affermazione incredibilmente antitetica a dispetto dei numerosi riferimenti alla “diversità” e “all'esclusione”.
Dumont non fa sconti a nessuno, e costruisce il suo cinema in modo squisitamente anticinematografico, ricorrendo a un minimalismo tremendo, fatto di lunghissimi silenzi, dialoghi scarni o assenti come assenti sono le emozioni che animano i suoi protagonisti. Il neorealismo di quei visi autentici, “proletari”, si scontra con lo straniamento brechtiano di una recitazione contenuta, e se l'orrore si scatena in silenzio, il silenzio si fa avvolgente e sinuoso come l'omertà che lo anima. Il risultato è allora una storia senza storia, dove gli uomini, ridotti alle loro funzioni basilari, il sesso, la morte, l'attrazione per la violenza, non sono ancora pronti, né mai lo saranno (forse), ad aprire il cuore alla grazia e al perdono. L'età inquieta è un grande dramma la cui fine è già iscritta nel suo inizio, e in cui tutto torna alla sua regolare ineluttabilità. Soltanto un paio d'anni dopo, il regista francese firmerà un altro dei suoi molteplici capolavori, L'umanità, che già nel titolo contiene il suo significato, già nel suo folgorante (e assai chiacchierato) incipit presuppone il senso ultimo delle cose. Questo è ciò che siamo.
Marco Marchetti

Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Dossier Paperblog

Magazines